Il cielo in una stanza. Ettore Spalletti alla Galleria Nazionale di Roma
Sono ventidue le opere che la Galleria Nazionale di Roma ha selezionato per rendere omaggio a Ettore Spalletti a due anni dalla sua morte. Intervista col curatore Éric de Chassey
Il cielo in una stanza è la mostra dedicata a Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo, 1940 ‒Spoltore, 2019) dalla Galleria Nazionale di Roma, che racchiude i colori di una lunga ricerca fatta di monocromi e forme pure, frutto di gesti lenti e lungamente pensati, agiti nella ritualità del fare.
Il titolo della mostra allude alla sua pratica artistica, finalizzata a raggiungere una dimensione soprannaturale attraverso verità percettive eterne e geometrie fondamentali. Privati da ogni sussulto, i solidi azzurri e bianchi fronteggiano la frenetica sala centrale della galleria mostrandosi impersonali nella loro ingombrante presenza. Lungo le sale, poi, le opere provenienti dallo Studio Ettore Spalletti emergono tra quelle della collezione permanente, spingendo lo sguardo oltre i confini ed evocando nuovi risvegli. Il curatore della mostra, Éric de Chassey ‒ direttore dell’Accademia di Francia ‒ Villa Medici dal 2009 al 2015 ‒ chiarisce i suoi intenti.
INTERVISTA A ÉRIC DE CHASSEY
Ripercorrendo la carriera di Ettore Spalletti per ciò che concerne i suoi legami con l’Accademia di Francia, possiamo ricordare la retrospettiva promossa da Graziella Lonardi Buontempo nel 2006. Per quell’esposizione l’artista realizza appositamente per gli spazi di Villa Medici numerosi quadri, sculture e ambienti. Ma non era la prima volta che Spalletti aveva un legame con la Villa. Nel 1999, infatti, espone all’Atelier del Bosco di Villa Medici un grande pannello di legno orizzontale dipinto di azzurro. I rapporti di Ettore Spalletti con la Francia risalgono a molto tempo prima, quando nel 1966 reinterpreta l’obitorio dell’ospedale Raymond Poincaré a Garches, alle porte di Parigi. In quale occasione ha avuto modo di conoscere il lavoro di Ettore Spalletti?
Non ricordo esattamente quando ho visto una delle sue opere per la prima volta, ricordo di aver sentito parlare nel ’96 dell’obitorio dell’ospedale Raymond Poincaré a Garches e poi di avere provato a vederlo, ma non ci sono riuscito, ho visto solo delle foto. Poi ricordo molto bene una sua mostra in una galleria parigina, era un group show ma ricordo solo le sue opere, credo fosse il 2001. In quel momento ho guardato la sua opera con più attenzione, ho anche comprato dei cataloghi e poi sono andato a vedere altre sue mostre quando potevo. Particolarmente la mostra di Villa Medici nel 2006 per me fu un’esperienza molto forte, ho la sensazione che all’interno della stanza azzurra ho capito qualcosa del suo lavoro che non avevo capito prima: la dimensione di “ambiente”.
Che cosa intende?
So che non è una parola corretta, ma davanti a ogni opera di Spalletti non ci si rapporta solo con una parete verticale distinta da chi osserva, ma c’è veramente uno spazio dove la pittura si diffonde: questo è l’aspetto più forte del suo lavoro. E poi ci siamo incontrati quando ero direttore a Villa Medici, ho voluto conoscerlo meglio. Un rapporto che poi è andato avanti e si è rafforzato anche dopo la fine del mio incarico in Accademia. Era il periodo della sua mostra al MAXXI di Roma, che faceva parte di una serie di mostre, una a Bergamo curata dal mio amico Alessandro Rabottini e poi un’altra al Madre di Napoli.
Com’è nata poi l’idea di curare la sua mostra alla Galleria Nazionale?
È stata un’idea di Cristiana Collu, la direttrice della Galleria, perché sapeva che io amavo il suo lavoro ma che non avevo avuto l’opportunità di curare nessuna delle sue mostre durante il mio incarico come direttore dell’Accademia di Francia, visto che era passato troppo poco tempo dalla sua ultima esposizione a Villa Medici. È venuta a trovarmi e mi ha detto che aveva questo desiderio, invitandomi a lavorarci in pochi mesi. Per me era un’esperienza che non potevo non fare, anche se avevo molti impegni nello stesso tempo, ma questa è la vita.
LA MOSTRA SU SPALLETTI A ROMA
La mostra sarà documentata con un catalogo?
Sì, presenteremo il catalogo nei prossimi giorni, sto ultimando il mio saggio. Durante l’inaugurazione abbiamo programmato una conferenza con alcuni curatori più vicini a Spalletti, italiani prima di tutto ma anche inglesi. Anche loro hanno scritto un breve saggio che sarà pubblicato in catalogo.
Una mostra coraggiosa, che nasce prima di tutto dall’intento di valorizzare l’opera di Spalletti. Quali accorgimenti ha messo in campo per far emergere tutta la forza espressiva dell’artista all’interno di una mostra che da una parte raccoglie un importante nucleo di opere nella sala centrale e dall’altra le alterna a quelle della collezione permanente?
È stata una scelta completamente intuitiva. Conosco molto bene la Galleria e mentre osservavo gli spazi Cristina Collu mi ha informato che si sarebbe potuta allestire la mostra nel salone centrale. In quel momento ho pensato che una retrospettiva potesse farsi all’interno di un ambiente unico, come un paesaggio fatto di opere diverse.
Per la sala centrale ho selezionato le opere che ho pensato fossero fondamentali per capire il lavoro di Spalletti e la sua storia. Le altre ho capito che non avrebbero funzionato se le avessi inserite in quel contesto, anche perché sarebbero state troppe. A quel punto ho proposto a Cristiana Collu l’idea di fare alcuni posizionamenti all’interno della collezione permanente e lei ha accolto con molto piacere la mia proposta. Ne abbiamo parlato a lungo e abbiamo fatto delle ipotesi e alla fine siamo arrivati a questa soluzione che secondo me è molto interessante, perché se da una parte inizialmente si può assorbire l’opera di Spalletti nel suo contesto, dall’altra si può osservare la sua opera da un altro punto di vista, avviando un confronto con altri artisti. Mi piace soprattutto l’idea che i visitatori trovino senza saperlo le opere tra le sale dopo aver avuto una prima esperienza con un contesto più immersivo.
Qual è l’opera più rappresentativa che ha scelto per questa esposizione?
La prima opera che ho scelto è l’ellisse, perché era in una posizione molto importante nello studio di Spalletti quando è scomparso. L’opera non era mai stata esposta, ma era molto chiaro che fosse molto importante per lui e allo stesso tempo era inedita. Dunque sono partito con questa forma, che è una forma originale in sé.
LA POETICA DI SPALLETTI A ROMA
Potrebbe raccontarci come mai è stato scelto un titolo che fa pensare immediatamente alla canzone di Gino Paoli?
I titoli che sceglieva Spalletti per le sue opere erano molto poetici e forse un po’ troppo letterari per me. L’idea di inaugurare questa prima mostra personale del pittore dopo la sua scomparsa era una cosa molto importante, anche se le mie scelte curatoriali non potevano ricalcare quelle dell’artista stesso ma, avendo vissuto l’esperienza delle sue mostre e dell’effetto che avevano le sue opere su di me, avevo il desiderio di trasmettere questo tipo di esperienza, senza però essere costretto a fare esattamente come avrebbe fatto lui. Forse ho potuto scegliere questo titolo perché non sono italiano, si tratta di una canzone italiana ma l’ho scelta perché in fondo è anche un modo per dire: questa esperienza è una cosa molto semplice, umile, disponibile. Comunque è un concetto interessante questo rapporto tra l’interiore e l’esteriore, il cielo è una cosa che sembra essere fuori e lontano, ma l’idea di esserne parte attraversa sia la cultura popolare che quella aristocratica.
Quali sono gli aspetti ancora poco esplorati della ricerca di Ettore Spalletti?
Penso che anche se Spalletti ha fatto delle mostre in Francia, il suo lavoro sia sempre racchiuso all’interno di una tradizione puramente italiana.
Credo che adesso però sia importante portare il suo lavoro in una dimensione più internazionale. Penso che sia ancora un po’ troppo ancorato a questo territorio perché la sua vita si svolgeva principalmente in un paese vicino a Pescara. Lui diceva che aveva sempre vissuto in un paese di 8 chilometri quadrati e che quello era il suo mondo. È vero, ma credo che il suo lavoro abbia un’importanza più globale e credo che sarebbe molto interessante capire come funzionerebbe il suo lavoro in un ambiente che non sia italiano. Siamo sempre legati all’idea che l’astrazione e la figurazione sono le nozioni che funzionano, ed è vero, ma nel suo lavoro c’è un rapporto con i luoghi, con queste esperienze specifiche. In molti hanno parlato di questo aspetto, ma ci sono degli aspetti che potrebbero ancora essere indagati.
Il lavoro di Ettore Spalletti viene associato a quello di Cézanne, secondo lei questa è una strada che potrebbe essere percorribile?
Certamente sì. In un dialogo con Émile Bernard Paul Cézanne dice che “Non si dovrebbe modellare, si dovrebbe modulare”. Sto scrivendo su questo aspetto nel mio saggio, è molto importante secondo me. Cézanne portava avanti questa idea nella sua maniera, ma è un aspetto che si ritrova anche nella ricerca di Spalletti: questa modulazione dello spazio che non è la creazione di volume ma è la trasformazione dell’atmosfera.
‒ Donatella Giordano
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