Jason Dodge al Macro di Roma: arte contemporanea e poesia
Nella più grande sala del Macro di Roma Jason Dodge riflette sul significato degli oggetti, restituendo loro nuove interpretazioni
Un ampio spazio pensato come esplorazione diventa luogo d’incontro tra lo spettatore e la materia, ossia i resti degli oggetti utilizzati nel quotidiano, scartati e scorporati dal loro uso effettivo. Con Cut a Door in the Wolf (mostra realizzata al Macro di Roma per la sezione SOLO/MULTI) Jason Dodge (Newton, 1969) fa assumere a questi oggetti forma-significante uniforme e totale, parte di un concetto più ampio, che costringe il visitatore a reinterpretarli, riconoscendone l’esistenza al di fuori della loro originaria funzione. Biglietti sparsi a terra, piume, tessuti gettati qua e là sul pavimento: tutto si concretizza in una percezione visiva decentrata, che riguarda la concezione di monouso e di materia fine a sé stessa. Tutto è doppiamente decodificabile e rigenerabile.
JASON DODGE E LA PAROLA
Come già accaduto per la prima installazione permanente dell’artista (A permanently open window), anche con Cut a Door in the Wolf la tensione emotiva risiede nei nuovi significati degli oggetti, verso i quali lo spettatore si muove con curiosità. La parola, che definisce solo in parte l’oggetto, è al centro del lavoro di Dodge, al punto che nel 2012 fonda la casa editrice Fivehundred Places. Tra le pubblicazioni ci sono libri monografici e poesie contemporanee, come quelle di Matthew Dickman, poeta americano che ha collaborato con Dodge in precedenti installazioni. A tal proposito, quando si pensa alla poesia come forma di riduzione, afferma Dodge in un’intervista, è necessario “usare parole esistenti nell’ordine che esse assumono, e sono esse stesse a dare senso alla poesia. Nel processo del mio lavoro l’invenzione avviene in rapporto a cose che esistono già o che altre persone realizzano adottando gli stessi processi nella loro quotidianità”.
Rigenerare ciò di cui pensiamo ormai di non aver più bisogno, avvicinarsi alla materia con sguardo attento e critico, rende accessibile l’oggettività dell’opera e, in parte, ciò che di essa non è visibile al primo impatto. Lo spettatore entra quasi a farne parte, l’attraversa fisicamente, la trasforma, così da vincere una certa pigrizia intellettiva e interpretativa.
– Beatrice Andreani
http://fivehundred-places.com/
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