Scolpire lo spazio. La mostra di Paolo Icaro a Napoli
Paolo Icaro è alla Galleria Lia Rumma di Napoli con la mostra “Dribbling”. Un progetto che mette nel sacco il tempo e mira a scolpire lo spazio
Sin dalla sua prima personale del 1962 alla Galleria Schneider di Roma, Paolo Icaro (Torino, 1936) non ha mai smesso di sperimentare e di entusiasmare il suo pubblico con interventi d’alta urgenza mentale, con assenze e presenze, con aggiunte e raffinate resezioni, con casualità governate da regole, con azioni polifoniche dove il tempo e lo spazio sono trattati metodologicamente come elementi d’una narrazione che esige il testimone, l’individuo che viaggia e che entra fisicamente nell’area dell’opera.
Dribbling, il suo recente progetto espositivo alla Galleria Lia Rumma di Napoli, ci pone di fronte a un nuovo elettrizzante disegno che diluisce il tempo e cattura lo spazio per avvolgere e coinvolgere lo spettatore, per creare una linea immaginaria tra passato e presente, per segnare un punto di partenza capace di unire, appunto, diversi tempi e diversi spazi. “Il nucleo di opere che ho selezionato hanno come protagonista non l’oggetto, ma il visitatore stesso. Sono opere che ho scelto per il loro tempo, cioè quel tempo che divide il 1968 da noi oggi, ma anche perché io ero ad Amalfi nel ’68 ed è lì che ho cominciato una storia con Lia Rumma attraverso il marito Marcello Rumma”, avvisa l’artista in un breve ma significativo testo esplicativo.
LA MOSTRA DI PAOLO ICARO ALLA GALLERIA LIA RUMMA
Ad aprire il percorso sono infatti il Cuborto (1968) che si articola all’infinito e il preziosissimo CC (s.d.) su cui si apre un mondo e si stropiccia ogni soglia temporale: l’artista a questo lavoro sottrae la data – “di ogni opera può esserci una data di concezione e una di realizzazione”, ci spiega telefonicamente – perché, guardando a ritroso nel tempo (stirato, avvicinato, accartocciato), di questo lavoro abbiamo una prima stesura in yard (nella misura di pollici), una seconda in un metro cubo-torto realizzata in occasione della mostra Faredisfarerifarevedere (organizzata alla Galleria La Bertesca di Genova nel 1968) e questa terza in CC che è ulteriore ipotesi di una idea non chiusa, ma aperta all’aperto dell’aperto.
Nell’ambiente successivo, i Buchi 1.000.000+1 (1967) e l’elegantemente ricalibrato – rimesso-in-azione direbbe André Lepecki – Spazio scolpito, con anima (1967-2021) accolgono l’intervento partecipativo del pubblico (la seconda) ed elaborano una visione temporale che assorbe differenti temperature di realizzazione dell’opera, dal rifacimento gulliveriano di un progetto del 1967 alla proiezione di un video recente. Non c’è lavoro che non abbia la stessa intensità di quello successivo (la stessa forza espressiva del pensiero) in questa disarmante e generosa scrittura espositiva che mira a dribblare il tempo e lo spazio per colpire al cuore il fruitore, per rapirlo e portarlo in un’area-altra dove l’artista si vaporizza per affermare una nuova idea del fare-spazio dove, per dirla con Heidegger, parla e si cela un accadere.
Se nella seconda sala a riceverci sono il Cumulo di rete (1968) e il Vetro affumicato (1969), in quella successiva, accanto alla Scatola di Amalfi (1968), davvero un capolavoro!, l’artista pone Azzurra (2021), una installazione poeticamente legata alla morbidezza della tensione, a un mare che sembra raccolto e che oscilla (spinto dall’aria di un ventilatore) e che sembra quasi farci sentire, con Petrarca, che rotte dal vento piangon l’onde.
L’ARTE DI PAOLO ICARO
Lavorando tra il dentro e il fuori, tra l’io e la parabola sociale, Icaro ci pone di fronte a un mondo modellato da una mente imprevedibile, che senza alcuna nostalgia prosciuga la categoria di tempo e dilata quella di spazio (“un materiale da scolpire”): la scultura per lui va attraversata, vissuta, percepita come esperienza, come evento fenomenologico.
Solitari, nella saletta successiva, gli Appunti per forme nello spazio (1968), evidenziano l’importanza dell’idea e della sua elasticità, della progettualità, del projectum inteso come proiezione verso l’esterno d’un’idea che è già di per sé opera, luogo di mediazione tra il prima e il dopo, punto nevralgico dove le cose si formano e riformano, si disfano e ridisfano senza sosta in una realtà seconda, in un andare-fuori-di-sé che è, ci pare, la tensione permanente della quale si alimenta ogni singola l’opera.
‒ Antonello Tolve
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