La Biennale d’Arte di Cecilia Alemani sarà una mostra MeToo?

Il commento di Alessandra Mammì dopo la conferenza stampa maratona. La Biennale Arte uccide il maschio bianco e propone “capsule del tempo”.

Stavolta non ci possiamo lamentare.  La conferenza stampa della 59ma Biennale non è stata un saggetto senza figure e senza bussola. Tutt’altro: Cecilia Alemani, direttrice in carica, ha messo a dura prova la resistenza fisica del cronista. Dritta di filato per ben 60 minuti, senza una pausa, senza un sorso d’acqua, senza perdere il Nord neanche per un attimo, sorridendo e descrivendo teoricamente, praticamente, geograficamente la sua Biennale, la direttrice ha tenuto in pugno la platea con professionalità degna di una anchorwoman.
Non ha perso tempo a filosofeggiare, a citare a destra a manca poeti e storici, a difendersi da critiche non ancora espresse. Foto dopo foto, tappa dopo tappa, nome dopo nome con serrato montaggio di immagini ha abbracciato il vecchio metodo (benedetto) di offrire alla stampa quel buon esempio di mettere prima i fatti e poi le opinioni. O, nel suo caso, piegare i fatti a spiegare le opinioni.

Padiglione Centrale Giardini Photo by Francesco Galli La Biennale d'Arte di Cecilia Alemani sarà una mostra MeToo?

Padiglione Centrale, Giardini, Photo by Francesco Galli

BIENNALE ARTE: UNA MOSTRA ORGANIZZATA VIA ZOOM

Se la conferenza stampa è un banco di prova, questa prova lei l’ha vinta a pieni voti. La sua mostra invece potremo giudicarla davvero solo dopo il 23 aprile quando inaugurerà tra Giardini e Arsenale dopo slittamenti di ben due anni causa Covid e un’indagine condotta soprattutto via Zoom/Skype e quant’altro da una direttrice confinata a New York.
Forse tutti quegli schermi liquidi e fluttuanti, quelle connessioni tremolanti e visioni pixelate di opere e volti di artisti che in epoca pandemica hanno sostituito i rituali studio-visit del curatore ai quattro angoli del pianeta, hanno contribuito a dare alla mostra la dimensione onirica da cui il titolo: “Il latte dei sogni“, immagine accattivante, fin troppo forse, per questa epoca più vicine a un “Fiele degli incubi“. Ma Leonora Carrington alla quale è stata rubata tanta evocativa espressione, appare a tutti gli effetti nostra contemporanea. Artista surrealista che si immaginava figlia di un amplesso tra sua madre e una macchina, creatura Cyborg prima ancora che esistesse il termine, donna/macchina come la protagonista di Titane, film che nel 2021 ha vinto Cannes e nel 2022 è stato scelto a rappresentare la Francia gli Oscar, grazie alla distopica mente femminile della regista Julia Docournau.
Alla domanda se nella mostra la distopia vincerà sull’utopia, la curatrice con largo e rassicurante sorriso si dichiara foriera di un messaggio assolutamente ottimista che vuole indicarci la strada di un futuro destinato a un radicale cambiamento dei rapporti fra uomo e natura, corpo e macchina, relazioni fra i sessi e le specie viventi.

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Roberto Cicutto e Cecilia Alemani, Photo by Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia

BIENNALE 2022. UNA MOSTRA METOO?

Un futuro che prevede un rituale sacrificio umano: quello del potere del maschio bianco occidentale e di tutta la sua vitruviana centralità.
Non l’uccide l’Alemani naturalmente, né la 59ma Biennale d’Arte. Già da un po’ la sconfitta creatura si aggira come uno zombie tra i rottami di un immaginario, che in tutte le arti (non di certo nella vita reale) lo vede smembrato nel corpo e deprivato della sua potenza, ma che ora qui perde anche il rifugio nel sonno e nei sogni.
Questo è territorio di altri sessi: le donne in primis che sono le vere protagoniste di questa Biennale e tutti i diversi generi che abbracciano la metamorfosi prossima ventura.
Quindi eccolo lo spirito dei tempi in mano alle donne di ieri e di oggi. Artiste che grazie alla loro emarginazione hanno mantenuto intatto un nucleo profondo di archetipa conoscenza al riparo dall’ evoluzione a linea retta e gamba tesa della storia maschia, bianca, occidentale.
“Capsule del tempo” le ha battezzate la direttrice e ne ha sparse parecchie lungo il percorso come cellule o meglio organi di un corpo unico, pieno di rotondità, uteri, seni, cavità, sfere, contenitori che prendono forme di scultura, pittura (tanta), video, segno o linguaggio.
Hanno titoli che ricordano racconti di fantascienza dolce o di horror domestici: “Culla della strega”, “Tecnologia dell’incanto”, “Seduzione del Cyborg”. Sono capitoli di una storia non ancora scritta che riguarda soprattutto donne escluse o rese marginali da gruppi o movimenti storici dal Surrealismo all’arte Optical dove i nomi passati alla storia sono come sempre maschili.

LE ARTISTE IN MOSTRA ALLA BIENNALE

Sono per dipiù luoghi chiusi che si alternano al serpentino percorso, dove invece si accavallano  le generazioni, le appartenenze, i sessi,  le origini e dove a nomi notissimi (Barbara Kruger, Carla Accardi, Josephine Baker, Sonia Delaunay, Nan Goldin, Hanna Höch, Carol Rama) si aggiungono nomi meno conosciuti o dimenticati, mentre artiste nate negli anni ’80 del secolo scorso secolo (Giulia Cenci, Elaine Cameron-Weir, June Crespo)  si avvicinano ad artiste nate negli ’80 di due secoli fa (Anna Coleman Ladd, Valentine de Saint-Point) in un tutt’uno che vorrebbe essere un unico organismo capace di partorire altri organismi, quelli che abiteranno il futuro.

Cecilia Alemani, photo by Andrea Avezzù_Courtesy La Biennale di Venezia

Cecilia Alemani, photo by Andrea Avezzù_Courtesy La Biennale di Venezia

LA GRANDE MADRE?

Viene in mente la bella mostra firmata da Massimiliano Gioni, con cui Cecilia Alemani divide la vita e condivide la scelta di un identico lavoro. Si chiamava La Grande Madre e nel 2015 raccontò a Palazzo Reale a Milano la rappresentazione della maternità dalle avanguardie fino a noi proponendo sul tema un confronto tra immaginario maschile e femminile. A domanda Cecilia risponde: “Non l’ho neanche vista. Ero incinta, ho partorito proprio in quei giorni, non potevo lasciare New York“.  E poi quella del suo compagno era solo una mostra sulla maternità mentre la sua, a onor del vero, vuol partorire un intero mondo se non dei mondi. Non resta quindi che attendere con curiosità questa Biennale, sperando che sia più la riflessione che l’evasione a nutrire un progetto che lascia in fondo un dubbio: non vorremmo che “Il latte dei sogni” come un pifferaio magico ci trascini troppo nel mondo dorato del Bello, del Meraviglioso, del Fantastico. Là, oltre i confini della realtà, in un momento in cui la realtà bisognerebbe invece guardarla in faccia per far ritrovare all’arte un posto e un ruolo in questo mondo insonne, affaticato, preoccupato. Altrimenti a che serve una Biennale?

Alessandra Mammì

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