Un mare di plastica: l’installazione di Tamiko Thiel e /p al MEET di Milano
Nel Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura Digitale di Milano la coppia artistica Tamiko Thiel e /p analizza responsabilità e conseguenze del consumo umano con un’installazione immersiva in Virtual Reality
“Gli esseri umani hanno creato un’epoca nuova per gli abitanti dell’oceano: il Plastocene”. Sembrano cupe le parole di Tamiko Thiel (Oakland, 1957) che aprono la nuova mostra Enter the Plastocene al MEET Center, in piazza Oberdan a Milano. Lo stupore non può che essere grande, allora, entrando effettivamente nell’installazione immersiva aperta fino al 27 febbraio 2022: una coloratissima stanza che replica il fondale oceanico, pesci e coralli da ogni lato con tanto di blub blub in sottofondo. Guardando meglio, però, tra pinne e alghe ci sono forchette e bicchieri, lattine e buste. Sono ovunque. E più gli spettatori interagiscono con gli schermi – dialogo reso possibile da due pad che proiettano con una telecamera in live feed i loro visi sulle pareti e con il cui touch si può giocare – più i pesci diventano plastica. Si crea così un gioco paradossale e frastornante, replicabile sullo smartphone scaricando un’apposita app, che si sdoppia in un’anima divertente e una deprimente come il migliore dei black humour.
IL PLASTOCENE IN MOSTRA AL MEET CENTER DI MILANO
“Tutto è cominciato con un viaggio in barca nel Sud-Est asiatico”, racconta Thiel, ingegnera meccanica laureata al MIT e pioniera nel campo dell’arte tecnologica, in cui è attiva dagli Anni Ottanta. “Eravamo sempre circondati dalla plastica, dalla superficie ai fondali. Anche se non era a casa nostra, tutto questo ci riguardava da vicino. Quando la Cina ha smesso di accettare la plastica dai Paesi occidentali, nel 2018, noi non abbiamo trovato alternative, ma abbiamo continuato a venderla ai Paesi in maggiore necessità economica: ecco da dove viene la plastica nei fiumi dell’Asia e dell’Africa”. La presa di responsabilità da parte dei Paesi ricchi del mondo, protagonisti del Plastocene e co-creatori delle otto tonnellate di plastica che finiscono in mare ogni anno, è un passaggio fondamentale per la risoluzione del problema: per questo è stata fortemente evidenziata nell’installazione dall’azione diretta degli spettatori. “Questo intervento provoca ognuno di noi a esaminare cosa stiamo attivamente e passivamente facendo per inquinare gli oceani. Siamo messi direttamente nella storia degli oceani che cambiano e ritenuti responsabili”, racconta la curatrice Julie Walsh.
L’ARTE DI TAMIKO THIEL E/P
Il pensiero dietro quest’opera è quello sotteso a molte altre installazioni, video e coreografie curate da Thiel, che lavora dal 2018 insieme al marito, artista e programmatore, /p. “Siamo sposati da trent’anni, ma lavoriamo insieme da poco”, racconta /p, originario di Monaco di Baviera, città dove i due vivono e lavorano. “Prima io lavoravo full time come programmatore per delle compagnie tecnologiche, così che Tamiko potesse dedicarsi completamente alla sua arte”. Un sodalizio che ha permesso loro di diventare digital nomad molto prima che fosse considerato cool: entrambi partivano quando le venivano assegnate cattedre nelle università di tutto il mondo, da Singapore agli States, o se seguiva progetti internazionali, stando via per mesi alla volta. Questi stimoli hanno contribuito a rendere il lavoro prima di Thiel, e poi anche di /p, eminentemente sincretico. Come si può vedere in una delle sale dedicate alla mostra nel MEET Center, adibita a esemplificazione dei loro precedenti lavori, le opere di Thiel sono sempre state ibride. Questo è inteso sia da un punto di vista materico – realtà aumentata, realtà virtuale e intelligenza artificiale sono le parole chiave di tutta la sua carriera, iniziata con un supercomputer nei laboratori del MIT – sia da un punto di vista culturale. Americana di origine giapponese, l’artista approfondisce temi come l’identità, dalla popolarissima opera sui deepfake Lend me your face alla ricostruzione in tre atti del Muro di Berlino e all’opera politica Beyond Manzanar, e l’impatto della presenza umana sulla Terra, già analizzata in opere come Unexpected Growth ed Evolution of the fish. In entrambi i casi, è comune alla sua pratica artistica una profonda ricerca di contestualizzazione, che raggiunge in quest’ultima mostra, progettata e realizzata nell’arco di sei mesi, un livello ancora più integrato e terrificante: “‘Enter the Plastocene’ rimette lo spettatore al proprio posto: in mezzo all’immondizia che crea”, chiosano gli artisti. “Restituisce un senso di cosa significhi essere circondati da ogni lato dalla spazzatura”.
‒ Giulia Giaume
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