Mostre, fiere e non solo. I 50 anni di Studio La Città a Verona raccontati da Hélène de Franchis
Intervista a Hélène de Franchis, gallerista della storica galleria veronese Studio La Città che ci racconta mezzo secolo di mostre, fiere, incontri con artisti e tanto altro ancora
Cinquant’anni e non sentirli: è un traguardo importante quello raggiunto da Studio La Città, galleria nata a Verona – con il nome di Galleria La Città – nel 1969, dalla volontà di Hélène de Franchis, che ne è ancora oggi la titolare. Una galleria carica di storia e proiettata verso il futuro, come dimostrano le due mostre attualmente in corso dedicate a Carol Rama e Marino Marini (entrambe visitabili fino al prossimo 14 maggio) e la collettiva in programma dal 2 aprile al 30 luglio 2022 a Miami, presso la galleria di Piero Atchugarry, dal titolo 50 Years, a Day. Studio la Città, a Story, con artisti che hanno segnato il percorso di Studio La Città, tra cui Stuart Arends, Gabriele Basilico, Pier Paolo Calzolari, Lawrence Carroll, Vincenzo Castella, Lynn Davis, Lucio Fontana, Alberto Garutti, Herbert Hamak, Jacob Hashimoto, Igino Legnaghi, David Leverett, Emil Lukas, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, David Simpson ed Ettore Spalletti. In occasione del cinquantesimo anniversario dalla nascita della galleria, abbiamo intervistato Hélène de Franchis.
Se dovesse utilizzare tre parole per descrivere i 50 anni della sua attività di gallerista, quali sarebbero?
È difficile scegliere tre parole per descrivere 50 anni di lavoro, ci provo. Entusiasmo, Fatica, Curiosità. Ma è molto restrittivo, perché ci sono stati dei periodi di grande fatica unita a grandi soddisfazioni, così come a grandi delusioni. Forse la cosa più entusiasmante è stata quella di conoscere delle persone molto speciali e vivere sempre in mezzo all’arte.
Qual è stata la mostra d’esordio della sua attività?
La prima mostra che ha inaugurato la Galleria La Città è stata una personale di Spazzapan in collaborazione con la Galleria Malborough di Roma. Mentre la prima mostra dello Studio la Città – un anno dopo, cioè il 1970, quando la galleria diventò solo mia – è stata una personale di Gianni Colombo. Finalmente nel 1973 riuscii a fare la mostra con la quale avrei voluto aprire la galleria: una personale di Lucio Fontana.
Quali sono state le mostre che, per vari motivi, le sono rimaste particolarmente a cuore?
Due o tre mostre negli anni Settanta sono state particolarmente importanti per il futuro della galleria, perché mi insegnarono come guardare e come capire la qualità delle opere: nel 1971 la prima personale di David Leverett che fu l’anticipo del mio lavoro con vari artisti inglesi (Richard Smith, John Hoyland, Robyn Denny…), nel 1974 Io non rappresento nulla io dipingo curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco sulla pittura analitica. Mostra che mi insegnò moltissimo e mi diede una visibilità internazionale. Poi fu molto importante quella con Enrico Castellani nel 1978 e in seguito, nel 1988, 20 anni dopo, una bellissima mostra curata da Luigi Meneghelli con tutti gli artisti che ammiravo in quell’epoca, Pistoletto, Novelli, Kounellis, Boetti, Fontana, ecc. Segnò una svolta nella scelta degli artisti perché in quel momento capii quello che cercavo di fare, di dimostrare e di riconoscere.
Nel 1989, la galleria si trasferisce in un altro spazio…
Il cambio di spazio nel 1989 fu un altro passaggio molto importante, perché la dimensione dello spazio mi offrì la possibilità di fare mostre diverse, installazioni di grande respiro e altre iniziative. È in quello spazio che ho cominciato a lavorare con giovani artisti come Jacob Hashimoto, Lawrence Carroll, Hiroyuki Masuyama, Herbert Hamak, adesso tutti nella loro mid career, a parte Lawrence che non è più con noi. L’inizio del lavoro con Jacob Hashimoto è stato entusiasmante, perché ho imparato a vedere le cose in un’altra dimensione. Così come la prima personale con Pierpaolo Calzolari è stata una grande emozione: sono mostre che non dimenticherò.
Il 2007 segna un altro capitolo importante della storia della galleria, l’apertura della nuova sede di Lungadige Galtarossa.
Questo è lo spazio che ho sempre desiderato: grande, luminoso, con soffitti altissimi, in un capannone industriale degli anni Trenta. Credo sia il desidero di qualsiasi galleria disporre di uno spazio che può essere modificato e che può essere utilizzato in modi diversi. Qui è stato possibile fare grandi installazioni come quella memorabile con Ettore Spalletti, e organizzare concerti e fare più mostre contemporaneamente.
Nel corso della sua carriera ha incontrato molti artisti, sia italiani sia stranieri. In che modo nasce e si sviluppa il rapporto tra gallerista e artisti?
Il rapporto con gli artisti dipende moltissimo dalle aspettative che uno ha: è importante avere lo stesso modo di guardare, indagare sullo stesso tipo di ricerca, forse condividere anche gli stessi ideali. Non è sempre indispensabile che sia così, ma quando ci sono queste affinità, quando ci si capisce al volo, il rapporto è duraturo; se le aspettative sono diverse, dopo una o due mostre inevitabilmente e senza rendersene conto si interrompe il rapporto, non necessariamente l’amicizia, ma forse l’interesse, la fiducia.
Ha partecipato fin dagli anni Settanta alle principali fiere d’arte. Com’era il mondo fieristico di quegli anni?
Le fiere sono state per me importantissime. La prima nel 1973 a Dusseldorf e la seconda a Basilea nel 1974 sono state una rivelazione. È stato un periodo avvincente: vedere tante proposte, conoscere tante persone che condividevano le idee o le aspettative che avevo io, mi sembrò miracoloso. Bisogna ricordare che allora non c’era Internet, per cui le cose si dovevano andare a cercare, i cataloghi si dovevano scovare, le mostre si dovevano vedere di persona. Dal 1973 ho fatto tantissime fiere, in Germania, a Parigi, in Svezia, in Cina, negli Stati Uniti… Era davvero emozionante, perché si proponevano artisti poco conosciuti ad un collezionismo diverso dall’italiano, si cercava poi di capire se la qualità dei propri artisti era all’altezza degli altri, se c’era un interesse per quello che si proponeva e chi si poteva portare a casa. Lo scambio era importantissimo. Avevo deciso fin dall’inizio che se non fossi riuscita a coprire le spese, non avrei più rifatto quella fiera, ma devo dire che non mi è mai capitato. A volte si tornava a casa contenti, a volte appena soddisfatti. Andavamo in due, a volte in tre, mi è capitato anche di andare da sola. Facevamo il trasporto da noi, affittando un furgone, guidando attraverso l’Europa: era un’avventura fantastica.
Nel 2012 ha deciso di non prendere più parte alle fiere. Come mai questa scelta e come sono cambiate, dagli anni Settanta a oggi, le fiere d’arte?
Dopo 40 anni di fiere ho perso l’interesse. Le fiere sono diventate un’operazione commerciale e poco altro, e io preferisco occuparmi degli artisti realizzando delle mostre in galleria o lavorando con i musei, in spazi espositivi di altre città o semplicemente in spazi diversi. Forse è più difficile e meno commerciale, ma a questo punto della mia vita cerco di fare quello che più mi piace e quello che mi dà più soddisfazione. Credo che le mostre che abbiamo appena inaugurato – Carol Rama, Marino Marini, la mostra a Miami da Piero Atchugarry e le tre mostre che faremo a giugno – Jacob Hashimoto, Stuart Arends e Herbert Hamak – sono esattamente questo.
– Desirée Maida
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