miart 2022. L’intervista con il direttore Nicola Ricciardi
Terminata l'art week milanese, è il momento di tirare le somme della fiera che l'ha trainata, ovvero miart. Il suo direttore, Nicola Ricciardi, lo abbiamo incontrato in due occasioni: venerdì pomeriggio, a fiera appena iniziata, e poi questa mattina, a giochi chiusi. Ecco cosa ne è emerso.
Iniziamo senza girarci troppo intorno: la prima edizione di miart che hai curato, lo scorso settembre, era noiosa. Colpa del momento, che definire “particolare” è un eufemismo?
Sono d’accordo con te. Ma in tutta onestà anche solo essere riusciti a fare un’edizione di miart nel 2021 ha qualcosa di miracoloso. Per realizzarla ci siamo concentrati sugli aspetti pratici a discapito di quelli curatoriali, e la qualità della fiera ne ha in effetti risentito. Nonostante ciò, le vendite sono andate piuttosto bene e le gallerie sono tornate a fidarsi di noi, di Fiera Milano e del modello delle fiere d’arte tradizionali. Questo ha permesso un dialogo più sincero e costruttivo nel 2022, che si è poi concretizzato in progetti nuovamente curati e all’altezza delle aspettative.
Ok, diciamo allora che questa è la tua prima edizione “vera”. Partiamo dall’immagine coordinata. Dopo tanti anni con Mousse, l’edizione di settembre è stata affidata allo studio Folder, quest’anno però avete cambiato di nuovo. Perché?
Il passaggio da Mousse a Folder è stato dettato da una normale esigenza di turn over, per dare spazio ad altri studi di grafica e comunicazione che operano sul territorio.
Ma non ha funzionato…
Il progetto grafico era molto bello ed elegante, ma forse troppo serio e rigoroso. Nel 2021 ha funzionato perché serviva uno stacco netto col il passato, ma per il 2022 avevamo bisogno di maggior dinamismo ed energia per sottolineare l’idea di movimento che è centrale in questa edizione.
Come avete lavorato con Cabinet Milano?
L’idea era che questa 26esima edizione fosse il primo movimento di una nuova sinfonia. Cabinet, lo studio che ha vinto la gara istituita da Fiera Milano, è composto da Rossana Passalacqua e Francesco Valtolina e si muove in maniera inedita fra grafica e moda, con una freschezza dal mio punto di vista inedita. Loro hanno coinvolto Isabelle Wenzel, una coreografa e fotografa tedesca, che ha realizzato un serie di scatti in cui lei stessa è protagonista e dove l’idea di corpo in movimento è resa in maniera chiara ma non banale. Era quello che ci serviva.
Inziamo con la visita. Appena entrati, c’è subito la sezione Emergent, quella in cui espongono le gallerie più giovani, curata dalla bravissima Attilia Fattori Franchini. Spazi un poco ridotti ma un bel capovolgimento di fronti…
È una scommessa che abbiamo voluto fare e che ritengo vinta. Negli scorsi anni c’era qualche comprensibile lamentela, le gallerie più giovani si sentivano messe all’angolo. Ci è sembrata una bella sfida posizionarle all’inizio del percorso, dove è impossibile non vederle. Abbiamo lavorato moltissimo con Attilia affinché le proposte fossero di grande qualità, responsabilizzando le gallerie alla luce di questo nuovo posizionamento.
Superata la sezione Emergent si arriva nei tre corridoi “classici” di miart. La prima cosa che si nota è il bianco delle pareti, uniforme ovunque. Quindi niente sezioni di moderno, contemporaneo e design?
Anche questa è stata una scelta radicale. Personalmente ho un’antipatia per le etichette, non mi interessa separare il contemporaneo dal moderno e queste ultime forme espressive dal design. Il modo più semplice per comunicare questa scelta era uniformare il colore degli stand e mescolare fisicamente le gallerie, in maniera tale che non ci fossero aree fisicamente distinte. Il prossimo passo potrebbe essere mettere al bando la moquette!
E i collezionisti non si perdono?
Certo che sì, ed era esattamente il nostro obiettivo. Se il collezionista va direttamente dalla galleria da cui compra abitualmente, la fiera che senso ha? Se invece si “perde”, allora può scoprire altre gallerie, altri artisti, altre epoche…
Aspetta un attimo. Mi risulta che però le gallerie del moderno pagassero di più. Adesso come funziona?
Non essendoci più sezioni separate, il prezzo al metro quadro è unico: 290 euro.
Non è esattamente una media.
È vero, è più orientato verso quanto pagavano le gallerie d’arte moderna. Abbiamo spiegato le ragioni di questa scelta e non ci sono state particolari proteste da parte delle gallerie d’arte contemporanea.
A proposito di proteste. Hai creato molti crocicchi angolari, che danno respiro ai corridoi. Ma in genere in quelle posizioni ci sono le gallerie più potenti, e invece passeggiando in fiera ho visto nomi che in quella posizione non ti aspetteresti.
Ho una certa avversione per il real estate fieristico. Il prezzo al metro quadro è uguale per tutti, quindi è corretto che tutti possano avere sulla carta le stesse possibilità. La scelta della posizione avviene principalmente in base al progetto presentato, oltre che ai metri quadri richiesti. Ho parlato più volte con ognuno dei 150 galleristi presenti in fiera, cercando non di accontentare tutti – è impossibile – ma di spiegare le ragioni delle mie scelte, una ad una.
Cosa mi dici della sezione Decades, curata da Alberto Salvadori?
Abbiamo lavorato insieme e il risultato mi sembra importante. Anche qui abbiamo mescolato le carte, per cui a pochi passi di distanza puoi trovare Robert Mapplethorpe e Gianni Bertini. Negli anni scorsi si è parlato troppo poco di questa sezione, intendo valorizzarla e valorizzare il lavoro di Alberto come meritano.
Nel nostro giro in fiera siamo stati avvicinati da più di un gallerista entusiasta per le vendite. Ho pensato che i toni fossero esagerati a causa della tua presenza, ma quando ho chiesto autonomamente conferme, sono arrivate. Hai qualche dato da fornire in merito?
Non ho dati quantificabili anche perché spesso ci sono trattative che iniziano durante la fiera e si concludono settimane o mesi dopo. Però mi sento di poter dire che le gallerie hanno venduto bene e che si sono costruiti nuovi contatti. Il ritorno economico è una parte importante per noi: sappiamo che se una galleria sceglie di partecipare a miart lo fa principalmente per ragioni di business. Un aspetto che in parte ci differenzia da Torino, dove le gallerie si sentono più libere di azzardare, di sperimentare. È anche per questo che non ho mai percepito Torino come un competitor, ma anzi come una fiera complementare.
Usciamo dalla fiera fisicamente intesa e aggiriamoci per Milano. Quest’anno l’art week sembra particolarmente vivace, con le due megamostre di HangarBicocca e Fondazione Prada che fanno da traino a una miriade di iniziative. Ci hai messo del tuo?
Abbiamo puntato tantissimo alla riuscita dell’art week, lavorando in sinergia con l’Assessore alla Cultura Tommaso Sacchi. Non era per nulla scontato che istituzioni importanti del territorio inaugurassero a ridosso o in concomitanza della fiera. Il risultato mi sembra davvero ottimo e io non posso che ringraziarle per aver dato seguito al nostro invito alla collaborazione.
Cosa vuoi migliorare nella prossima edizione, calendarizzata a fine aprile 2023?
Il principale obiettivo è incrementare la presenza di gallerie internazionali e di collezionisti stranieri. In questo sarà ancora una volta fondamentale l’apporto di Anna Bergamasco e Cristina Raviolo, rispettivamente Exhibitors Liason e VIP Manager di miart. Il successo di questa edizione – la loro prima – è in gran parte merito loro. E hanno fatto tutto in meno di sei mesi! Adesso, nonostante il contesto intorno sia tutt’altro che facile o sereno, mi sembra un sogno avere un anno a disposizione per lavorare a miart 2023 con loro e il team di Fiera Milano al mio fianco.
– Marco Enrico Giacomelli
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