Tra carne e pittura. La mostra di Marlene Dumas a Venezia
Tra dipinti piccolissimi e opere imponenti, il percorso artistico di Marlene Dumas si dipana fra le sale di Palazzo Grassi a Venezia. La sua pittura è un impasto di carne, sangue, pulsioni vitali
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Rimanere di stucco di fronte alla pittura di Marlene Dumas (Cape Town, 1953) è possibile, specie se si percorrono le trentatré sale della mostra open-end al Palazzo Grassi di Venezia. I dipinti di Dumas fanno venire il desiderio di sapere, di confrontarsi con la realtà, persino con il suo lato marcio e decadente. A stupire è inoltre la sua capacità di destreggiarsi tra dimensioni completamente diverse: si va dai piccoli disegni su carta di Venus & Adonis e dalle tele 24×30 centimetri ai 300×100 delle opere Amazon e Spring.
La forza di Marlene Dumas è che non si tira indietro, le sue opere sono dirette, a volte senza mezzi termini, abbracciano questioni attuali di politica e antropologia ma anche tematiche più astratte: l’amore, la passione, l’omosessualità e l’eterosessualità, la malattia fisica come le piaghe sociali, la morte e il decadimento senile del corpo, il disagio psichico, i tabù, l’Apartheid e il razzismo, l’occulto e il misticismo, i vizi e le dipendenze (l’abuso di alcol, il fumo, l’intossicazione, la ninfomania), i miti dell’arte, del cinema, della letteratura, delle scienze.
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Marlene Dumas. Open End. Exhibition view at Palazzo Grassi, Venezia 2022
LA PITTURA DI MARLENE DUMAS
Alcuni quadri, nel loro strutturarsi grazie a tocchi corsivi e pennellate minimali, hanno una potenza misteriosa: Hierarchy è ispirato a un fotogramma di Ecco l’impero dei sensi, film diretto da Nagasi Ōshima. Alcune opere reclamano, senza veli e censure, una sensualità spiccata, ma che va oltre il concetto di voyeurismo: The Particularity of Nakedness ritrae il compagno di vita di Dumas, Jan Andriesse, quando erano amanti. Altre volte Dumas raffigura situazioni perturbanti come in Struck, in cui l’ambiguità di ciò che avviene (o non avviene) lascia nel dubbio: si tratta di un gioco erotico, di un’aggressione violenta o di entrambe? Chi è il personaggio tagliato fuori dalla composizione?
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Marlene Dumas, Blindfolded, 2002. Collezione privata Thomas Koerfer. Photo Peter Cox, Eindhoven © Marlene Dumas
LA MOSTRA DI MARLENE DUMAS A PALAZZO GRASSI
La mostra open-end a Palazzo Grassi si apre con dipinti estremamente provocanti come Tongues, Awkward e The Gate ‒ dove è il bianco a incunearsi nello spazio lasciato libero dalla carne, come una lama penetrante, a colpire lo sguardo ‒, Fingers e Miss Pompadour. Lovesick riprende formalmente e simbolicamente l’idea di disponibilità e passività, quasi di tortura fetish, della rana in The Crucifixion. In Lovesick, tuttavia, la figura femminile è rovesciata: è eretta e di spalle, con la schiena leggermente arcuata, anziché abbandonata a pancia all’aria su un piano orizzontale come l’anfibio. Il percorso di visita termina con quadri scuri e macabri, in cui pennellate fosche sono lacerate da toni di latte e ghiaccio. Già soltanto i titoli sono un pugno nello stomaco: Straitjacket (Camicia di forza), Blindfolded (bendato), The Death of the Author.
Interessante soprattutto la collocazione di due quadri che sembrano aprire e chiudere, idealmente, la mostra, rimandando l’uno all’altro. Losing (Her Meaning), alla fine del percorso, rappresenta una figura che galleggia a testa in giù, inerme e immobile come fosse affogata, in un mare livido e verde bottiglia. In Red Moon, invece, si vede una figura femminile la cui testa emerge dalle acque mentre il corpo, morto, sembra trascinarsi verso il fondo. Quest’ultima opera si ispira all’Ophelia del pittore preraffaellita Millais, che rappresenta la donna amata da Amleto, annegata in un ruscello. La mostra si rivela quindi circolare, ricalcando l’idea di open end, come spiega Bruno Racine nel catalogo: “Dopo essere maturata durante i mesi di confinamento o di chiusura dovuti alla pandemia, non solo infatti costituisce il grande evento legato alla riapertura del Palazzo, ma soprattutto afferma che l’allusione alla fine, pur introducendo un tratto malinconico o evocando il lutto, non significa per niente una chiusura, anzi”.
GLI STRUMENTI A SUPPORTO DELLA MOSTRA VENEZIANA
In occasione della mostra sono stati prodotti, oltre al catalogo, una guida completa di tutte e trenta le sale, opera per opera, compresa nel prezzo del biglietto, e un podcast in tre lingue diviso in due episodi. Per il podcast sono state individuate tre voci che potessero raccontare Dumas in maniera autentica. Nel primo episodio si parte dall’infanzia di Dumas, nata in Sudafrica in pieno Apartheid, per ripercorrere episodi biografici salienti che hanno contribuito a plasmare la sua poetica. Il secondo è stato registrato durante l’allestimento della mostra per portare la testimonianza delle persone coinvolte. La guida tascabile, invece, che riunisce una serie di testi elaborati e raccolti dall’artista stessa e da Jolie van Leeuwen in collaborazione con Roger Willems, si rivela uno strumento essenziale per avvicinare il visitatore al cuore delle questioni pittoriche affrontate da Dumas. È possibile quindi contemplare le opere dell’artista accompagnati dalla lettura delle sue stesse impressioni e suggestioni, avendo accesso, nel medesimo istante, a pensieri complessi e pittura pura. Si chiude con le intriganti parole di Marlene Dumas: “Vorrei che i miei dipinti somigliassero a poesie. Le poesie sono frasi che si sono tolte i vestiti. Il significato di una poesia è dato dalla sua cadenza, dai ritmi, da come le parole si muovono sulla pagina. La poesia è scrittura che respira e salta e lascia spazi aperti, consentendoci di leggere tra le righe”.
– Giorgia Basili
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