Due mostre a Nizza dedicate a identità e futuro dell’arte italiana
Presentate durante la Milano Art Week, le due mostre sono una importante ricognizione verso il passato e il futuro dell’arte del Bel Paese. Ne parliamo con Marco Scotini, curatore insieme a Valérie Da Costa del progetto
Due mostre sull’arte italiana, La Vita Nova e Le Futur Derrière Nous. A curarli Valérie Da Costa, storica dell’arte francese, specializzata sull’arte italiana, nota nel nostro paese anche per le sue ricerche su Lucio Fontana, Fabio Mauri, e Pino Pascali, e Marco Scotini, direttore di NABA e FM, curatore di numerose mostre, biennali e progetti in Italia, non ultimo autore di una grande monografia dedicata a Laura Grisi, e nel mondo, compiono una importante ricognizione sull’arte nello Stivale concentrandosi su due particolari periodi storici e bucandone, di proposito uno, gli anni ’80, che diventano il punto nodale e il grande assente della riflessione, come ci spiega proprio Marco Scotini, in questa intervista. La mostra della Da Costa, che si svolgerà al MAMAC di Nizza dal 14 maggio al 2 ottobre 2022) tratta infatti il periodo dagli anni ’60 chiudendo con il 1975, mentre l’esposizione a Villa Arson si dedica allo spaccato tra il 1990 fino ai giorni nostri. Entrambi i progetti sono presentati a Milano il 1 aprile 2022 alle 15.30 da FM Centro per l’Arte Contemporanea, in occasione della settimana dell’arte intorno a miart, in una conferenza moderata da Vittorio Parisi, responsabile della ricerca di Villa Arson.
Due mostre sull’arte italiana. Cosa unisce e cosa separa questi due progetti espositivi?
Vita Nova curata da Valérie Da Costa per il MAMAC e Le Futur Derrière Nous curata da me per Villa Arson vorrebbero, insieme, coprire sessant’anni di storia artistica italiana: un progetto davvero ambizioso e raro nel panorama internazionale di cui dovremmo ringraziare le istituzioni francesi. La cosa più evidente in questo lasso di tempo è che un decennio salta dalle maglie della cronologia, rimane scoperto: gli anni ’80. Vita Nova termina il proprio percorso nel 1975, data della morte di Pasolini, e Le Futur Derrière Nous inizia dagli anni ’90. Questa lacuna non è casuale ed è diventata il centro di riflessione attorno cui ruota la mostra a Villa Arson. Le due esposizioni sono concepite molto diversamente e in piena autonomia curatoriale ma la continuità è data dal fatto che gli ultimi trenta anni sono convocati per rileggere la decade italiana dei Settanta, la loro esplosione creativa e sociale, a partire dal vuoto e dalla reazione ideologica del decennio successivo.
Siamo 40 anni dopo Identité Italienne di Germano Celant. Cos’è successo in questo periodo di tempo? Qual è l’identità italiana di oggi?
Soffermarsi su quella esposizione è già una spiegazione del futuro italiano. Secondo me, Identité Italienne. L’art en Italie depuis 1959 al Centre Georges Pompidou è un vero e proprio case study. Rileggendola oggi, ci appare come un’esposizione dissociata: da un lato, un ristretto numero di 18 artisti in una esposizione modello white cube e, dall’altro lato, un catalogo di 700 pagine con una cronologia (e una narrazione pluristratificata) compresa tra il 1959 e il 1980. Il catalogo è ancora tutto concepito con una metodologia archivistica che Celant aveva sviluppato negli anni ‘70 fino alla pubblicazione di “Precronistoria 1966-69” del 1976, mentre la mostra è già tutta tesa alla celebrazione di singole individualità, come sarà tipico di quel decennio. Anche il congedo che scrive Carla Lonzi per quel catalogo mi sembra sintomatico della fine di un mondo: “Ma ormai avevo imparato dai miei artisti e andarmene non mi ha spaventato, anche se è spaventoso. Questa uscita mi ha permesso di arrivare a un distacco che mi permetterà di tornare. Al punto in causa, non all’istituzione”.
E poi?
Come si sa, Carla Lonzi muore nell’agosto ’82, Mario Mieli si suicida nel marzo ’83 e di lì a poco entreranno in scena “le veline”. È pur vero che il progetto di allestimento di Celant (con Gregotti e Cerri) era diverso dalla realizzazione ma, di fatto, è andata così. Senza insistere troppo, direi che dopo i Settanta la cultura e la società italiana si sono trovate a vivere la cosiddetta “controrivoluzione” che ancora perdura. Parlare oggi di “identità” dell’arte italiana, non avrebbe alcun senso perché i paradigmi sono mutati in qualsiasi contesto e, comunque, le condizioni storico-sociali italiane hanno creato una rottura sostanziale tra un prima e un dopo.
Nelle scorse settimane è stato presentato a Roma un rapporto che indaga la presenza e il riconoscimento degli artisti italiani viventi all’estero. Ne è venuto fuori, per dirla con parole povere, che l’arte italiana c’è ma non si fa sentire. A tuo parere perchè? Inoltre, c’è una arte italiana del secolo scorso (Manzoni, Fontana, Arte Povera) che ha invece una solidità in termini di riconoscimento e di mercato che i nostri artisti del presente non possono vantare. Cosa avevano quegli artisti che le nuove generazioni non hanno?
Le ragioni dell’invisibilità dell’arte contemporanea italiana sono molte e impossibili da riassumere in breve tempo. La prima, dal mio punto di vista, è culturale. Vogliamo dare un’occhiata ai nostri quotidiani? Che spazio ha l’arte? Chi scrive d’arte? Cosa rimane della critica? Ma pure: si è mai preso in considerazione la funzione delle accademie? Che ruolo culturale ha la politica partitica in questo vuoto di informazione, di conoscenza, di rapporto con il mondo? Non credo sia più possibile ricostituire delle leadership culturali perché nessuno lo permette, a meno che queste non passino per la TV o per la spettacolarizzazione mediatica (di cui anche La Repubblica o il Corriere finirebbero per parlarne).
Poi ci sono ragioni logistiche, come spesso dici…
Una tra tutte: la Biennale di Venezia era curata, fino agli anni ’90 da figure (curatori o meno) italiane e le presenze artistiche italiane erano, ovviamente, molte. E ora? Potrei anche testimoniare di cose culturali terribili che ho visto accadere in questi ultimi anni nel nostro Paese ma preferisco affidarle ad un libro futuro. Sempre che qualcuno in Italia sia ancora in grado di leggerne uno.
La tua mostra ha un titolo emblematico in tal senso… Il Futuro alle spalle…
Credo che se non facciamo i conti, una volta per tutte, con la rimozione degli anni Settanta (con il trauma generazionale che ne è seguito) sarà impossibile recuperare i terreni perduti. Certo di quale futuro vogliamo parlare? Le anticipazioni che quei dieci anni hanno messo in cantiere sono invalutabili (dal punto di vista sociale, teorico, economico, di genere) ma abbiamo preferito la controrivoluzione e li abbiamo liquidati come “anni di piombo”. Al contrario, penso che tutto quello che gli è seguito sia stato e sia ancora piuttosto plumbeo.…
Chi saranno gli artisti coinvolti, dal 1990 ad oggi? Con quale filo conduttore?
Partire dagli anni Novanta significa cominciare dal riconoscimento di uno spaesamento del presente, da una immagine segnata da un anacronismo, da un duplice scarto basilare che vede, da un lato, un passato traumaticamente interrotto e, dall’altro, il fallimento di una grande anticipazione emancipatrice. Dunque doppio e capovolto è lo sguardo che la mostra mette in scena. La frattura temporale diviene lo spazio di un appuntamento e un incontro con il passato: un passato che nessuno degli artisti in mostra ha vissuto in prima persona ma di cui si intende essere testimoni. Raccogliere sotto un unico denominatore ciò che tre generazioni di artisti hanno prodotto è un compito tutt’altro che facile alla luce della dispersione che questa scena ha sofferto negli ultimi anni. Un aspetto fondamentale è che in mostra ci saranno riletture di Basaglia, di Lonzi, di Pinelli, di Mari, di Chiari, di Balestrini, di Grifi, de Il Fuori e la rilettura non potrebbe essere più attuale.
Entriamo più nel dettaglio…
La mostra si apre con una macchina teatrale: quella di Marcocavallo, un cavallo di cartapesta azzurro come il cielo, con cui i ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Tieste volevano portare fuori, far uscire i loro desideri. Sono lavori di Claire Fontaine e di Stefano Graziani, fatti in momenti differenti. Si vuole uscire “fuori” in sostanza, superare quella che allora si chiamava ‘alienazione’, ma poi la mostra si chiude con l’immagine della P2 di Luca Vitone. Gli artisti sono 20 e appartengono a tre generazioni diverse, hanno coscienza di cosa sia il presente. Non vedo lettura più autentica del postfordismo di quella di Marie Cool e Fabio Balducci, artisti straordinari.
Come saranno invece a tuo parere gli anni a venire per l’arte italiana e cosa si può e si deve fare?
Sempre peggio se gli artisti italiani non cominceranno a reimpossessarsi di una coscienza politica che i loro colleghi – a differenti latitudini – hanno. Volete che ripeta quello che un artista sotto i riflettori ha affermato durante una press conference recente, a cui i nostri giornalisti e i nostri uomini politici hanno applaudito?
–Santa Nastro
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