Ecco il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti alla Biennale di Venezia
Le immagini e alcune riflessioni dal padiglione nazionale curato da Eugenio Viola. Tra finzione e realtà. Gran finale poetico (e non fotografabile!)
Una lunga processione porta come di consueto al Padiglione Italia, ultimo tra gli spazi, attraversando la mostra all’Arsenale curata da Cecilia Alemani, e i colleghi provenienti da altri paesi che lo precedono. C’è molta attesa e, nonostante la pre-pre-apertura riservata esclusivamente ad alcuni addetti ai lavori, c’è già una discreta fila (“possiamo fare entrare 100 persone, ma per ora stiamo sulle 50 per tenere coerente l’atmosfera”). Anche perché si si entra uno per volta, con la richiesta di stare in sacrosanto silenzio. Come è noto, proprio per volontà ministeriale, è la prima volta da quando si è riaperta l’arena dedicata agli artisti italiani, che il nostro Paese presenta finalmente un nome unico, in questo caso Gian Maria Tosatti, in un progetto a cura di Eugenio Viola.
GIAN MARIA TOSATTI TRA BIENNALE E QUADRIENNALE
Una nomina discussa, polemizzata ulteriormente dal contestuale incarico a Tosatti alla direzione artistica della Fondazione Quadriennale di Roma, accompagnata da sentimenti contrastanti. Come è e come non è, l’Italia però torna a sognare il Leone d’Oro: finalmente anche il nostro paese può presentare un unico “campione” nel Colosseo della Biennale. La complessità degli spazi del Padiglione Italia non è un segreto per nessuno e la sfida che pone a chi vi si cimenta è di ampia portata. Un artista come Tosatti, abituato a misurarsi con i progetti di caratura ambientale (è noto il suo lavoro de Le Sette Stagioni dello Spirito ambientato a Napoli però nei luoghi della realtà e del quale si sentono molti echi qui in Laguna) e qui non è stato da meno. A prescindere dal suo lavoro, la domanda aleggia: andando verso una serie di padiglioni con artista unico, saranno svantaggiati coloro che lavorano su altre scale, anche se la loro pratica merita di rappresentare l’Italia alla Biennale?
MA COM’È IL PADIGLIONE ITALIA?
Il percorso espositivo di Storia della Notte e Destino delle Comete inaugura con un immaginario noto a chi conosce il lavoro dell’artista nato a Roma nel 1981. Da un accesso ripensato in chiave ex industriale si entra in grandi ambienti abitati da grosse strutture nostalgiche e contemporaneamente senza tempo. In lontananza si sente echeggiare Senza fine, romantico brano di Gino Paoli, cantato da Ornella Vanoni, scritto nel 1961. In solitaria o quasi il visitatore, invitato da più cartelli al silenzio, viene sovrastato dai mostri della meccanizzazione, dalla alienazione del lavoro, non senza però raccoglierne un senso di fascinazione, tradita poi dalle vestigia di un’industria coeva, aggressiva, anonima e inanimata, priva di passioni. È un continuo spegnere e riaccendere le luci, tra stanze che parlano di lavoro e spazi domestici di antica gloria con pavimentazioni decorate tipiche delle case italiane del secolo scorso e lampadari di cristallo, reti di letti abbandonati e poi ancora un nuovo spazio di lavoro muliebre con tavoli e macchine da cucito Singer, in cui il senso di omologazione è stringente, la presenza umana è solo allusa da qualche centrino, il tutto incorniciato da lastre dorate di ferro ossidato, andando verso la luce. Prima dunque l’ambiente immersivo di un ex cementificio, poi quello di un opificio tessile. E quindi il gran finale. L’acme si raggiunge con l’ultima sala, quella non fotografabile per l’oscurità e forse per questo quella dotata di maggiore poesia. Racchiusa da vetrate, si percorre attraverso un camminamento che ricorda gli attracchi delle barche a Venezia. La stanza è inondata d’acqua increspata, a perdita d’occhio, e sul fondo si accendono e si spengono le lucciole, quelle del famoso articolo di Pier Paolo Pasolini (“darei tutta la Montedison per una sola lucciola”), ma forse anche le stelle invocate da Dante, che nel buio della quotidianità e della storia vorremmo riuscire a rivedere.
–Santa Nastro
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