Una Biennale organica: prime impressioni dalla mostra di Cecilia Alemani
Ha finalmente alzato il sipario per gli addetti ai lavori la 59. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Qualche riflessione sulla mostra allestita fra il Padiglione Centrale ai Giardini e le Corderie dell’Arsenale, curata da Cecilia Alemani
A lungo attesa e altrettanto a lungo rimandata per effetto della pandemia, la Biennale Arte firmata da Cecilia Alemani ha accolto i primi addetti ai lavori, srotolando il filo di una narrazione che chiama in causa la contemporaneità stretta e tematiche universali – dall’identità di genere al rapporto sempre più conflittuale fra uomo e natura, fino alla dialettica corpo-tecnologia.
LA MOSTRA AL PADIGLIONE CENTRALE
Materia, fisicità e frammentazione sono i poli attorno ai quali Alemani costruisce lo storytelling della mostra da lei curata negli spazi del Padiglione Centrale ai Giardini e delle Corderie dell’Arsenale. È il corpo a dominare in entrambe le occasioni: scomposto ed esposto nelle sue componenti, diventa strumento per mettere alla prova e rovesciare dualità e binarismi perentori, ben testimoniati dal ruolo che, nel corso del tempo, è stato attribuito alla donna. Sono proprio le artiste al centro della scena nel Padiglione Centrale, dove prendono forma le “capsule del tempo”, contenitori fisici e metaforici di poetiche multiple, nelle quali la distanza generazionale si azzera, a favore di un discorso organico che procede, in un gioco di rimbalzi, tra le pareti delle sale e il loro centro. Nella capsula intitolata La culla della strega, ad esempio, i dipinti di Leonora Carrington, Remedios Varo e Dorothea Tanning affiancano gli scatti di Claude Cahun e i frammenti cinematografici dedicati a Josephine Baker, in un loop di rimandi complementari che spezzano i limiti dello stereotipo e rendono il corpo una materia fluida, atemporale, ibrida. Materia capace di declinarsi anche in scrittura e in un sistema di simboli complessi – protagonisti della capsula Il corpo come orbita – o in luce e movimento – propaggini percettive della capsula ispirata alla “tecnologia dell’incanto”, dove trovano spazio, fra gli altri, i lavori di Dadamaino e Grazia Varisco.
LA MOSTRA ALLE CORDERIE DELL’ARSENALE
La logica del frammento applicata a un corpo senza punti di ancoraggio innerva anche la narrazione espositiva delle Corderie – dove lo sguardo ha più respiro e le opere trovano, come spesso accade, una sequenza meno convulsa rispetto a quella del Padiglione Centrale. In linea con quanto visto ai Giardini, e con quanto auspicato dalla stessa Alemani, anche all’Arsenale dominano pittura, fotografia, linguaggio grafico, mentre la dimensione installativa e scultorea è riservata solo agli interventi di grande impatto visivo ‒ da Delcy Morelos, che inaugura il percorso, alle atmosfere terragne disegnate da Precious Okoyomon nel giardino al limite del claustrofobico con cui si conclude l’itinerario delle Corderie.
Le tecnologie più attuali e le esperienze immersive sono lasciate ai margini, in risposta alla bulimia della virtualità pandemica e a un desiderio di dar voce a una tecnologia “altra”. L’estetica cyborg diventa un altro modo per parlare di corpo – e forse in questa occasione l’impianto narrativo della mostra perde un po’ di mordente –, ampliando ancora una volta i confini stereotipati del fantoccio tecnologico, della bambola vuota, riempiendoli di contenuti fisici, tangibili, oppure, al contrario, esponendo senza filtri la materia di cui sono fatti – l’ipnotica e iper-organica installazione di Mire Lee ne è un esempio lucido e implacabile.
Il corpo, infine, è anche politico. E parla dell’onda lunga del colonialismo, di pregiudizi razziali e di un presente costantemente sul punto di incrinarsi, evocati dalle opere di Noah Davis e Sandra Vásquez de la Horra, a conferma di un dialogo che non vuole conoscere generazioni.
Dalla mostra di Cecilia Alemani emerge un discorso coraggioso, che scava in diversi livelli di profondità, come fatto in passato dalle Biennali di “ricerca” e di “tesi” curate da Bonami, Gioni, Enwezor, rispetto alle quali, tuttavia, compie un passo in più, aprendo lo sguardo a un tentativo di ibridazione nettamente contemporaneo. Un passo difficile e non sempre fermo, ma determinato a lasciare – si spera – un segno.
– Arianna Testino
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