Immersivo senza retorica. Il Padiglione Francia alla Biennale di Venezia
Firmato da Zineb Sedira, il padiglione francese alla Biennale di Venezia è uno dei più acclamati. Christian Caliandro si interroga sulle sue peculiarità
Continuiamo questo piccolo tour tra i padiglioni nazionali alla Biennale di Venezia. Quello francese – il cui Les rêves n’ont pas de titre / Dreams Have No Title riecheggia ovviamente Il latte dei sogni della mostra principale – è stato il terzo che ho visitato, in ordine di tempo: la lunghissima fila (quasi due ore) stava per farmi desistere dalla visita, ma per fortuna ho resistito, perché appena si entra nello spazio ci si immerge in un mondo di ricordi, di memoria, di riferimenti e di pensieri.
Ecco, l’opera “immersiva”: è evidente che questa rappresenta una tendenza molto forte di questi anni, il tentativo cioè di offrire allo spettatore un’esperienza completa, ricca, attraverso l’intreccio e la fusione di più media e linguaggi (in questo caso, arte ambientale, installazione, performance, cinema). Il punto, come per ogni tecnica e/o dispositivo, sta tutto nel come li si adopera.
IL PADIGLIONE FRANCESE DI ZINEB SEDIRA
Il primo ambiente, accogliente, è quello di un bancone da bar, con tavolini e pista da ballo: è la riproduzione esatta della scenografia di una scena del film prodotto in Algeria Le bal (Ballando ballando, 1983) di Ettore Scola. Il pubblico può sedersi, abitare questo ambiente – e, subito dopo, mentre ci si guarda in giro, due ballerini professionisti cominciano a ballare un tango. Siamo immediatamente trasportati dentro non solo il lavoro fisico, ma il mondo immateriale dell’artista, che ci parla della sua infanzia, della sua esperienza di autrice francese di origine algerina poi trasferitasi in Inghilterra nel 1986, e del ruolo che cinema e musica hanno avuto nella sua formazione.
Il carattere ‘finzionale’ di questi differenti set in cui Zineb Sedira (Parigi, 1963) riarticola lo spazio del padiglione è dichiarato, al punto che vediamo comparire in bella vista gli strumenti del cinema (fari, cineprese, telecamere, schermi) e persino un archivio che contiene le pizze dei film che compongono la storia di questo viaggio. È la storia innanzitutto degli intrecci cinematografici – fatti di coproduzioni, soprattutto tra Anni Sessanta e Settanta – che legano Algeria, Francia e Italia, partendo da un gioiello ritrovato, il documentario Les mains libres (Les algerins, 1965) diretto da Ennio Lorenzini, primo lungometraggio algerino post-indipendenza, e dal ruolo dello stato algerino come produttore di film anche politicamente problematici, come Lo straniero (1967) di Luchino Visconti tratto dal romanzo di Camus e che ignora la questione del colonialismo e una scenografia del quale è riprodotta in un altro ambiente.
TEMI E LINGUAGGI DEL PADIGLIONE FRANCESE
Zineb Sedira affronta temi come la decolonizzazione dello sguardo, il razzismo e la discriminazione, la costruzione dell’identità culturale e l’accettazione dell’altro, e lo fa in modo empatico, umano, coinvolgente. Possiamo infatti sederci nel suo salotto pieno di libri, dischi, cimeli e guardare il suo video, o possiamo accedere al ‘retro’, trasformato in una sala cinematografica d’antan, e osservare l’artista sullo schermo ballare lo stesso tango dei performer nella medesima ricostruzione, o citare nella scena di apertura del suo film – che parla di come conquistare la libertà espressiva e personale anche attraverso gli strumenti culturali (cinema, musica, ballo, arte visiva) – l’Orson Welles di F for Fake: “This film is about trickery”.
Il cinema diventa così il meta-linguaggio che contiene di fatto tutti gli altri, e i vari remake e making-of si trasformano in una tecnica che va decisamente oltre la citazione e l’appropriazione e che è in grado di dire qualcos’altro, di congiungere e intrecciare in maniera potente ricordi d’infanzia e crescita di un’intera comunità. Quest’opera si muove infatti tra più livelli – personale e sociale, individuale e collettivo, autobiografico e storico, vero e finto – riuscendo a tenerli insieme, e a costruire un contesto assolutamente non manipolativo ma che lascia allo spettatore ampio spazio di libertà e di incontro con l’imprevisto. Si tratta infatti di un’opera inclusiva in senso non retorico, da visitare (potendo) con grande calma, regalandosi il tempo di scoprire i tanti tesori dissepolti e di costruire le proprie connessioni tra i frammenti e le storie.
‒ Christian Caliandro
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