documenta 15: una rassegna necessaria. L’opinione di Lorenzo Giusti
Il direttore della GAMeC di Bergamo riflette sulla quindicesima edizione di documenta a Kassel curata dal collettivo indonesiano ruangrupa
Di questa edizione di documenta colpisce la sostanziale assenza di ideologia nonostante la scelta curatoriale di ruangrupa lasciasse, in premessa, presagire il contrario. È una mostra politica, “artivista”, ma senza bandiere piantate (al netto dei tanti drappi appesi), volta a presentare e a estendere i processi creativi alla base di alcune interessanti esperienze collettive.
Il visivo non è più un campo, bensì un’intersezione di possibili strade da imboccare. Il principio dell’autorialità è contestato in premessa, gioiosamente smentito a sostegno di una visione fluida e interconnessa del “corpo creativo”. Donna Haraway parlerebbe di “simpoiesi”, di pratiche del “con-fare”. Del resto viviamo consapevolmente su un pianeta infetto, consumato e avvelenato, in cui il singolo umano non è che una microparticella di un enorme corpo biologico collettivo. Sappiamo tutti che il cambiamento è necessario e improcrastinabile e che questo non può che passare da una trasformazione radicale delle pratiche comunitarie. L’azione del singolo potrà al massimo fungere da modello, ma mai potrà incidere sul reale cambiamento. E il cambiamento è l’unica strada possibile. Sull’orlo del baratro, è sufficiente, io credo, questo pensiero scontato per guardare con interesse all’esperimento di ruangrupa. Una documenta giocata su schemi creativi più canonici sarebbe potuta essere comunque utile, ma probabilmente non necessaria. Questo non vuol dire che le realtà presentate lo siano conseguentemente, ma il modello operativo potrebbe diventarlo. Quello di ruangrupa è un progetto che indaga il campo del possibile. Quanto approfonditamente lo scopriremo alla fine dei tre mesi di convivenza.
LE RIFLESSIONI INNESCATE DA DOCUMENTA 15
Di fronte all’irreversibilità della crisi climatica e alle sue conseguenze (guerre per i combustibili, migrazioni di massa, terrorismo energetico, perdita di biodiversità), qualcuno può negare che serva una mobilitazione di creativi che esplorino nuovi modi di vivere e convivere, offrendo un’alternativa alla sensazione che sia già troppo tardi per fare qualcosa?
Resta tuttavia l’evidenza che la collaborazione, per quanto allargata, all’interno di una mostra non possa comunque mettere al riparo i suoi partecipanti dal conflitto e dalla contestazione al di fuori di essa. Basti pensare alle accuse di antisemitismo innescate dal banner del collettivo indonesiano Taring Padi ‒ sicuramente uno dei più forti di questa documenta dal punto di vista del linguaggio visivo ‒ e alla decisione finale di oscurare l’opera di Friedrichsplatz (una delle tante del collettivo, sparse tra le varie sedi). Per quanto ampio possa essere l’invito a partecipare, qualcuno si troverà sempre a decidere quali forme di espressione o rappresentazione siano accettabili e chi debba essere escluso.
La maggior parte dei collettivi invitati proviene, secondo ruangrupa, da contesti in cui lo Stato non è riuscito a sostenere lo sviluppo di infrastrutture e di un sistema di supporto per l’arte e la cultura. La collaborazione può trasformare questi modelli nelle infrastrutture di cui questi artisti hanno bisogno? È un altro dei quesiti che l’esperimento di documenta 15 si porta dietro, insieme al grande interrogativo sul destino dell’Opera. Le collaborazioni e processi che emergeranno saranno in massima parte noti soltanto dopo la fine della mostra. Ciononostante non è mancata, anche nei giorni della preview, la presenza di lavori compiuti o che già nella fase embrionale manifestavano un’essenza chiara (in termini di statement, tematiche focalizzate o di linguaggio), come Britto Arts Trust, Gudskul, INLAND, Keleketla! Library, Más Arte Más Acción, OFF-Biennale Budapest (con opere affascinanti di Małgorzata Mirga-Tas, Omara, Selma Selman), Atis Rezistans | Ghetto Biennale, Black Quantum Futurism, The Nest Collective, Wakaliga Uganda o le installazioni di Amol K Patil, Jumana Emil Abboud, Nino Bulling e Dan Perjovschi.
DOCUMENTA 15 E BIENNALE DI VENEZIA A CONFRONTO
Si potrebbe essere tentati di pensare alla mostra di Cecilia Alemani per la Biennale di Venezia di quest’anno e a documenta 15 come due mondi nettamente separati, per il fatto che nella prima si trovano facilmente autori e opere e nella seconda no. Non è così. Il mondo che le due mostre abitano è lo stesso, ma mentre Il latte dei sogni si muove su una linea temporale estesa (le capsule storiche, nel dialogo dinamico con le opere più recenti, riscrivono alcuni passaggi fondamentali della storia dell’arte del XX secolo da una prospettiva di genere e interrogano sull’idea della contemporaneità come “presunto presente”), documenta ha deciso invece di provare a restituire l’immagine di un “presente esistente”, al costo di perdere l’immagine stessa, che per definizione è un dispositivo temporale esteso.
‒ Lorenzo Giusti
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