Rovine del passato e nuove tecnologie. Intervista all’artista Andreas Angelidakis

La sua mostra bolognese a Palazzo Bentivoglio parla di memoria e tecnologie digitali in un flusso continuo fra passato e presente. Lui è Andreas Angelidakis e lo abbiamo intervistato

Cominciai a interessarmi ai ruderi perché rispecchiavano la maniera in cui percepivo gli edifici a cui avevo lavorato online. Ho provato a formulare una mia teoria sul perché Facebook sarebbe diventato la nostra antica Roma: tutte le nostre vite sono lì e quando lo abbandoneremo per una nuova piattaforma, tutte le nostre foto e i nostri commenti giaceranno lì abbandonati”. Introduce così Andreas Angelidakis (Atene, 1968), artista e architetto, la sua fascinazione per le antiche macerie, tema al centro anche della mostra personale curata da Antonio Grulli che lo vede protagonista nel bolognese Palazzo Bentivoglio. Nelle sale ipogee è possibile osservare un concentrato della sua produzione, dalla scultura al video, dalla grafica al design, in cui icone post moderne come le colonne classiche di polistirolo si affiancano ai pacchi “volanti”, immagine guida dell’acquisto in rete e della turbo-logistica. Una progettazione senza scopo edilizio che ricorda le analisi critiche dei gruppi di architettura radicale e che, a partire dal presente e da uno specifico territorio di osservazione (la Grecia oggi), offre una lettura nitida del nostro rapporto con il passato e con le tecnologie digitali, come si può leggere fra le righe della conversazione che segue.

Andreas Angelidakis. Post Ruin. Exhibition view at Palazzo Bentivoglio, Palazzo Bentivoglio, Bologna 2022. Photo Andrea Rossetti

Andreas Angelidakis. Post Ruin. Exhibition view at Palazzo Bentivoglio, Palazzo Bentivoglio, Bologna 2022. Photo Andrea Rossetti

INTERVISTA AD ANDREAS ANGELIDAKIS

Entrando nei sotterranei di Palazzo Bentivoglio la prima cosa che si nota sono le morbide e cangianti strutture del progetto Soft Ruin, che scandiscono gli spazi e guidano il percorso. Un’atmosfera che ricolloca l’ambiente tra uno scavo archeologico e una discoteca. Come hai pensato la loro presenza in questo contesto storico e molto connotato?
Le Soft Ruin sono strutture di memoria, sono oggetti mentali che suggeriscono la possibilità di molteplici versioni dello spazio che abitiamo. Volevo rendere l’architettura molle, stratificarla con le luci e le ombre di una realtà immaginata. È anche un tentativo di rendere una dimensione più socievole, un invito a una semi allucinazione. Le antichità hanno già quel potere, perché le intendiamo come artefatti di un momento che non esiste più, quindi tendono in qualche modo a offuscare la realtà presente. Ma quando sono artificiali, abbastanza morbide per sedersi e abbastanza leggere per essere spostate, inondate di luci rosa e blu, l’ambiente diventa una scenografia adatta a un gioco mentale.

Una delle figure che guidano l’intero progetto espositivo è quella di Diogene, filosofo greco noto per aver deciso di vivere nella sua casa-botte. Una delle sculture realizzate con stampa 3D è dedicata a lui e nel titolo contiene una citazione a Le Corbusier. In che modo questi due riferimenti posso stare insieme?
Le Corbusier era una specie di Diogene, proprio come chiunque immagina un presente diverso da quello prescritto o tramandato dalle generazioni passate. La volontà di generare una versione personalizzata della realtà potrebbe portare all’isolamento, anche da un punto di vista privilegiato come il barile di argilla di Diogene situato nel mezzo del mercato, o persino lo status di notorietà che incornicia Le Corbusier come una star dell’architettura. L’isolamento è forse l’effetto più comune dei social media, e così gradualmente alcuni di noi potrebbero trasformarsi in moderni Diogene, sperando di evitare l’amarezza.

LA MOSTRA DI ANGELIDAKIS A BOLOGNA

Parte centrale della mostra, anche nel percorso di visita, sono i tre video Domesticate Mountain, Iolas e Vessel. In questi lavori, oltre alla tua fascinazione per la costruzione di edifici digitali e per la manipolazione di elementi classici che si legano alla definizione di “internet architect”, si percepisce un uso poetico e critico della narrazione. Come nascono i tuoi testi e quali sono i tuoi riferimenti letterari?
Penso che ogni volta che realizzo un video e che mi trovo a scrivere il testo che lo accompagna, sono ossessionato dal film Sans Soleil di Chris Marker, che ho visto quando ero studente di architettura a Los Angeles nei primi Anni Novanta. La scrittura dei sottotitoli richiede un ritmo diverso da altre tipologie di testo e Sans Soleil presenta la velocità perfetta. È quasi come se si potessero ascoltare i pensieri di qualcuno.

Nella carta da parati Greece e nella triplice video proiezione Screenwalker 2, 4 e 5 ti affidi in modalità diverse all’utilizzo del collage e dell’assemblage per connettere visivamente elementi distanti nel tempo e nei significati come ruderi di templi e droni, stampe antiche e prefabbricati. Oltre a riflettere sulla persistenza di alcuni elementi architettonici, questa modalità operativa sembra ostentare l’impermanenza dei simboli. È così?
Sono ossessionato da anni dalla tipologia di oggetti che chiamiamo comunemente soprammobili, perché sono manufatti il cui compito è portare un ricordo nel futuro. I ninnoli che rappresentano antichità, come quelli venduti nei negozi di souvenir di tutto il mondo, hanno il divertente compito di portare la memoria di una civiltà perduta. L sensazione è quella di trovarsi in un quadro metafisico, una realtà sfocata in cui il passato sfocia nel futuro e viceversa. Penso che questi elementi trasgrediscano il loro valore simbolico originario, li vedo come totem di uno sviluppo storico non lineare.

Claudio Musso

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Claudio Musso

Claudio Musso

Critico d'arte e curatore indipendente, la sua attività di ricerca pone particolare attenzione al rapporto tra arte visiva, linguaggio e comunicazione, all'arte urbana e alle nuove tecnologie nel panorama artistico. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Archeologia e Storia…

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