Nedko Solakov. L’artista che mescola disegno, parole e umorismo
In mostra al MAXXI di Roma e alla Galleria Continua di San Gimignano, Nedko Solakov fa il punto sulla sua carriera. Partendo dal presupposto che senza ironia non è possibile vivere
Oltre 1666 chilometri separano Sofia da Roma e circa 272 la Città Eterna da San Gimignano: un lungo viaggio che Nedko Solakov (Červen Brjag 1957; vive e lavora a Sofia) ha affrontato in automobile, come è solito fare, insieme alla moglie Slava. Al MAXXI di Roma l’artista bulgaro è stato invitato a realizzare A Cornered Solo Show #2, a cura di Hou Hanru e Monia Trombetta. Un progetto inusuale, un “angolo-non angolo” concepito come “ostacolo inevitabile” per lo spettatore che intercetta il mondo visionario di Solakov con le sue storie (in parte autobiografiche) che riflettono sulla vita contemporanea con tutte le sue contraddizioni, tra illusioni e disillusioni, intrecciando immagini e parole con apparente leggerezza e umorismo caustico.
In A Cornered Solo Show #2 l’artista parla esplicitamente anche della guerra in Ucraina quando scrive (in inglese): “Scusatemi se parti della storia non sono in linea con il concetto iniziale. Ho dovuto creare storie nuove e amare (in rosso) per non rimanere relegato al mio mondo che, a sua volta, non è più lo stesso”. A San Gimignano, invece, il nuovo appuntamento alla Galleria Continua vede Nedko Solakov protagonista della mostra personale A Side Solo Show (drawings only) nello spazio all’Arco dei Becci, con una carrellata di disegni, esposti in ordine cronologico, realizzati a partire dal 1981, da Before the army (old woman) fino al 2022 (Dreams that disappointingly came true), accompagnati dalla proiezione del video Some of My Capabilities (1995).
INTERVISTA A NEDKO SOLAKOV
Nella mostra A Side Solo Show (drawings only) i disegni sono realizzati con tecniche diverse.
Suppongo di dover usare il termine “sperimentare”, anche se penso che sia un po’ sciocco in relazione all’arte perché un artista fa semplicemente quello che vuole. A ogni modo, ho iniziato usando carboncino, graffite, inchiostro, penna, pennelli e ho continuato a utilizzarli anche negli ultimi anni, realizzando anche disegni a matita seppia, in bianco e nero con l’inchiostro o con il lavaggio (wash) su carta molto pesante. Per un bel po’ di tempo ho resistito a non utilizzare il colore, finché nel 2016 ho iniziato la grande serie Stories in Colour, che ho esposto proprio qui alla Galleria Continua e la scorsa estate sono nuovamente tornato a realizzare disegni ad acquarello. Il colore mi ha dato un’altra possibilità per dire quello che volevo dire.
Il disegno come pratica quotidiana: per lei è anche una sorta di diario personale?
Anche se in passato ho realizzato dei disegni che potevano avvicinarsi al diario, non lo sono esattamente. Il mio approccio al disegno è molto diverso. Prima di tutto mi siedo e molto, molto spesso ‒ potrei dire sempre ‒, quando ho un pezzo di carta, un pennello e l’acquarello, comincio con il mettere del colore con il pennello e non so veramente cosa accadrà. Ci sono momenti in cui si aggiunge colore su colore ‒ e ancora colore su colore ‒ finché appare qualcosa che può essere riconoscibile, ma che può anche non esserlo. Quando le cose diventano un pochino più chiare comincio a scrivere il testo in inglese e lo mando al mio editore di madrelingua inglese perché possa correggerlo. Certe volte lei ha bisogno di capire meglio il contesto e, quando il disegno è in fase di realizzazione, le invio un’immagine. Alcuni disegni ad acquarello nascono in maniera piuttosto veloce, altri richiedono molto più tempo. Soprattutto quando la storia è complicata, come nel caso di una grande installazione narrativa che generalmente contiene diverse storie, è necessario che il testo sia scritto in maniera molto chiara perché possa essere letto dalla gente. Ad esempio, nell’installazione Discussion (Property) che ho realizzato nel 2007 per la 52esima Biennale di Venezia, sulla disputa tra la Bulgaria e la Russia per il copyright intellettuale della produzione del famoso AK-47 ‒ la mitragliatrice Kalashnikov ‒, per leggere la storia che si sviluppava su una parete di oltre 9 metri occorrevano almeno 15 minuti. In quel caso il testo è stato rivisto da tre curatori, tra cui Robert Storr, che era il curatore della Biennale, e Charles Esche, direttore del Van Abbemuseum di Eindhoven.
L’ARTE SECONDO NEDKO SOLAKOV
Suo padre Mit’o era scultore e suo figlio Dimitar è un artista multidisciplinare: una vera e propria “tradizione di famiglia”. Fin dall’inizio della sua carriera era chiaro per lei che la sua pratica artistica si sarebbe dovuta emancipare dalla retorica dell’approccio accademico?
No, non era chiaro. Mi sono diplomato al Liceo Matematico con la medaglia d’oro nella città di Gabrovo, dove sono cresciuto, Anche Christo è nato lì. All’epoca non sapevo se avrei proseguito gli studi all’accademia d’arte o in architettura, dove comunque era necessario conoscere la matematica, ma presto ho capito che non avrei studiato architettura. Mio padre ‒che riposi in pace ‒ mi ha sempre aiutato molto, così presentai un progetto ai professori e fui ammesso all’accademia. Ero molto giovane e, provenendo da studi di matematica, non avevo alcune conoscenze artistiche. Non avevo mai avuto a che fare con la pittura a olio né con altre tecniche. Durante il primo anno giravano molti aneddoti sulle mie incapacità! Ma quando mi sono diplomato in pittura murale ero in grado di realizzare affreschi, mosaici, ceramiche… anche se di fatto non avevo mai realizzato alcun dipinto murale. Il primo è stato proprio Discussion (Property). Successivamente, quando avevo oltre trenta, quarant’anni, talvolta facevo dei piccoli dipinti che non definirei esattamente intimistici, ma guardandoli contenevano delle storie anche se non c’era ancora il testo al loro interno. Ma per tornare alla domanda, si suppone che chi si diploma in pittura murale realizzi delle tele monumentali con qualunque cosa. Il mio lavoro, invece, era appena un po’ satirico con delle cose messe sottosopra. Lo stesso senso dell’humor che ho oggi, magari non così pungente e sarcastico. Un po’ alla volta ho trovato la mia strada, cominciando a inserire anche le parole insieme alle figure.
Nelle sue opere disegno e pensiero viaggiano parallelamente, contaminandosi a vicenda ed entrando in relazione con l’ambiente. Pagine in parte autobiografiche che diventano una sorta di “poema epico contemporaneo”: quanto è importante il referente dell’unità di misura nella negoziazione tra realtà e finzione?
Le piccole figure sono apparse tanto tempo fa, sin dalla fine degli Anni Ottanta… Provo a teorizzare il motivo per cui uso questi piccole “persone”. Il primo impatto è che qualsiasi cosa che sia piccola è debole. Se si ha un foglio di carta, anche se è solo 19×28 pollici [48×71 cm, N.d.R.], con il fondo bianco e una figura di non più di 1 centimetro, può sembrare grande per lui o lei. Fondamentalmente si prova un senso di solitudine, tanto più che molto raramente uso più di 3, 4 o 5 piccoli personaggi per creare una storia. Certe volte è possibile che ci sia un solo piccolo personaggio, altre una folla. Ma la folla è come una persona sola. Presumibilmente non appena si vede questo piccolo personaggio che sta lottando o soffrendo, si ha un certo impatto emotivo. Ma non necessariamente il testo che è sotto lo descrive con empatia, perché può anche essere un furfante. Il grande e il piccolo sono molto importanti e direttamente collegati ai diversi livelli di percezione che sono presenti nelle mie grandi installazioni narrative. In questo modo si ha un testo principale e molti sottolivelli. Amo quello che la gente prova nel non riuscire ad avere la percezione di vedere tutto, del resto è così anche nella vita reale. Se guarda intorno coglie tutto ciò che attrae la sua attenzione. Allo stesso tempo, se indirizzo il suo sguardo con gentilezza, indicando questa o quella direzione, potrà vedere nella pila di carte qualcosa di veramente significativo che non coglie guardando altrove.
Ironia caustica, errore e imprevisto: qual è il ruolo di questi tre elementi nella sua personale chiave di lettura del mondo?
Lo humor è veramente importante. È presente nel mio lavoro da tanto tempo. Non si tratta di sembrare divertente o fare una caricatura, in un certo senso è legato all’assurdità della vita, perché la vita è assurda. Se si perde il senso dell’umorismo non è possibile vivere. Anche l’ironia è importante, soprattutto l’autoironia. La gente non potrebbe credere nella mia ironia se io per primo non mi prendessi in giro.
Come nel video Some of My Capabilities?
Sì, anche.
Invece la nostalgia?
Onestamente non credo che ci sia veramente della nostalgia nel mio modo di pensare. Certamente c’è il ricordo dei tempi in cui ero giovane, ma è sufficiente che mi ricordi che sto diventando anziano perché questo vuol dire che ho quattro nipoti e se fossi giovane non sarebbe così.
Ha due studi, uno a Sofia e l’altro nei dintorni della sua città natale. Li considera una sorta di “comfort zone” dove riflettere e progettare nuove opere, oppure luoghi di conservazione dell’archivio e della memoria?
È tanto, per la verità, che non realizzo un lavoro nello studio che si trova a Boriki. Mia madre vive lì, nella casa costruita da mio padre, una specie di villa che guarda la catena montuosa dei Balcani. Mio padre fece due studi, uno per lui e uno per me. Lì ho realizzato tanti progetti ma negli ultimi anni, quando mi reco a Boriki per un paio di settimane, preferisco usarlo come punto d’appoggio per andare nella natura. Guido l’auto per 15 o 30 minuti, arrivo nei Balcani e poi entro nel bosco e percorro 12, 15, 20 chilometri al giorno. Certamente è di grande ispirazione. Quanto allo studio di Sofia, ne ho uno nuovo con due ambienti separati collegati da un passaggio, dopo l’altro in cui sono stato per ventuno anni. Dopo aver lasciato quello studio mi sono chiesto come mi sarei sentito, ma sto bene. Mi basta realizzare qualcosa in un certo luogo perché possa sentirlo il mio studio.
‒ Manuela De Leonardis
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