Christian Frosi e Anri Sala in mostra alla GAMeC di Bergamo
La GAMeC di Bergamo promuove due mostre solo in apparenza distanti, mettendo in luce le poetiche di due artisti che hanno saputo cogliere il senso della contemporaneità
Due eventi espositivi che più diversi tra loro non potrebbero apparire tengono banco in queste settimane a Bergamo nel quadro della programmazione della GAMeC.
Attraverso le sale della Galleria si dipana la parabola artistica di Christian Frosi (Milano, 1973), indissolubilmente legata alle sue singolari, travagliate, discusse vicende esistenziali. Emerso come uno dei più limpidi talenti espressi dall’ambiente milanese nell’estremo scorcio degli Anni Novanta, in auge a livello internazionale fin verso il 2012, all’improvviso Frosi rinuncia alla sua identità e professione di artista e si ritira dalla scena. A dieci anni da quella data ecco che, grazie alle cure e alle premure di Nicola Ricciardi, gli viene dedicata un’ampia antologica di oltre trenta opere, con l’evocativo titolo La Stanza vuota, frutto di poco più di un decennio all’insegna di un’arte tutta dedicata alla fuggevolezza, allo svanimento, all’impermanenza. Sul nostro cammino troviamo dune di sabbia, fiocchi di schiuma, assemblaggi precari di oggetti domestici. Con il candore del puer aeternus che si diletta in sforzi cervellotici e vani, la ricerca di Frosi si svolge entro la dimensione di un quotidiano trasfigurato da una poetica dell’atto gratuito e del nonsense dandysticamente perseguito. Assistiamo al deragliamento dai binari di un’estetica consolidata e consolatoria, al dispiegamento di un piglio ribaldo nel maneggiare le cose contropelo, nel conferire alla banalità un’insondabile allure metafisica, nel trasformare la labilità in ineffabilità.
L’INSTALLAZIONE DI ANRI SALA A BERGAMO
Spostiamoci ora a Bergamo Alta. Nella grandiosa installazione di Anri Sala (Tirana, 1974), intitolata Transfigured, a cura di Lorenzo Giusti, direttore della GAMeC, e di Sara Fumagalli, la Sala delle Capriate, nel Palazzo della Ragione, da scenario diventa spazio dialogante, si agita e prende vita animandosi di bagliori intermittenti: le immagini che scorrono su uno schermo gigante lungo sedici metri si trovano così a interagire con gli affreschi delle pareti e le nervature del soffitto, assorbendo lo spettatore nella suggestione di un congegno ipnotico. Questo lavoro prende le mosse da due eventi storici che hanno come denominatore comune due esecuzioni musicali, una compiuta e una mancata. Quella, divenuta leggendaria, del Quartet for the End of Time, che il musicista francese Olivier Messiaen compose nel 1941 mentre era recluso in un campo tedesco e che fu eseguita sul posto insieme ad altri tre compagni di prigionia; e un’altra, che avrebbe dovuto aver luogo, per la prima volta nella storia, nello spazio, se la navicella che ospitava l’astronauta-sassofonista Ronald McNair non fosse esplosa, quel 28 gennaio 1986 in cui il mondo assisté alla tragedia dello Space Shuttle Challenger.
MEMORIA E DESTINO SECONDO FROSI E SALA
Che cosa ci mostrano le immagini che appaiono sullo schermo, ottenute tramite modelli matematici capaci di sortire effetti iperrealistici? Il mix dei sopradetti motivi musicali ‒rielaborati o simulati attraverso una sofisticatissima ingegneria del suono ‒ risulta provenire, secondo ritmi arcanamente singhiozzanti, da un vinile deposto sul piatto di un giradischi sospeso e carambolante in una stazione spaziale in assenza di gravità. Col suo braccio meccanico che ora si divarica dalla superficie del disco come un arto sciancato e ora ritorna, abbassandosi con pari lentezza, alla sua funzione, il dispositivo acustico diventa esso stesso metafora di un ruotare cosmico. Le musiche in questione, quella che ha avuto origine in una cella e quella mai nata secondo le originarie intenzioni, sembrano elevarsi al rango di musica delle sfere celesti, lo stesso piatto nei suoi giri si trova a mimare delle orbite planetarie.
La musa epica e tecnologica di Sala e quella smagata e dispersiva di Frosi, entrambe ‒ a dispetto dell’apparenza di cosmologica solennità o di scanzonata monelleria ‒ intimamente tragiche, ci invitano, da due prospettive opposte, a riflettere sul lascito promesso dai tracciati della memoria nel destino di dissolvimento delle azioni umane. E forse ci fanno ancora illudere che almeno un residuo di quella che un tempo si chiamava catarsi metafisica della realtà, nell’arte contemporanea, alberghi ancora.
‒ Alberto Mugnaini
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