Un’opera al San Carlo e una mostra da Lia Rumma per Marina Abramovic a Napoli
Un’esperienza allargata tra tempi e spazi, che sconfina fra vita e arte in una riformulazione non solo dei linguaggi, ma anche delle individualità di artista, pubblico e muse. Una riflessione a consuntivo dello spettacolo e della mostra di Marina Abramovic a Napoli
Fluttuante e iconica nel buio, il suo viso adagiato immobile per più di un’ora sulla scena come un gorgo energetico di movimento pur nella stasi. Fissa e stabile, eppure generativa, come il filo rosso meditativo della musica delicata, eterea ma possente, che accompagna la transizione tra le arie: una sintonizzazione continua che offre ancoraggio e aggancio.
MARINA ABRAMOVIC E LA SUA OPERA LIRICA
La presenza potente di Marina Abramovic sul palco del San Carlo, nella sua prima opera lirica, è pivot emotivo e comunicativo tra i diversi quadri dello spettacolo, ma anche tra i livelli di cui si nutre il multiforme dispositivo estetico del progetto 7 deaths of Maria Callas.
Un meccanismo complesso ma fluidamente funzionante, che unisce lirica, performance, cinema e videoarte, narrazione e parola, fotografia, installazione, esposizione in galleria, interazione, digitale e analogico. Mescolando pubblico e fruizione teatrale con pubblico e fruizione di galleria, creando nuovi target e abbattendo insensate barriere tra esperienze culturali. Facendo fruttare il tutto in un’unificazione che ruota di certo attorno alla fascinazione e celebrità dell’autrice, usata però allo scopo espressivo di implementare empatia e partecipazione, preferendo quindi sempre la fame alla fama d’arte.
Sul palco, uno spettacolo al tempo stesso colto e pop, che unisce la presenza performativa dell’autrice alla musica live di cantanti liriche e alla proiezione sovrastante e retrostante di un lungo film d’arte, di impeccabile fotografia e straordinaria forza interpretativa, in cui Abramovic cristallizza il senso emotivo sottostante le arie in immagini e azioni essenziali e simboliche, ambientate in luoghi altri rispetto alla scena: da città a deserti postatomici, passando per intime camere da letto e arene da torero. E con il quale moltiplica la sua stessa presenza, in osmosi tra analogico e digitale. Senza omettere scenografie così suggestive da sfiorare l’installazione.
LA MOSTRA ALLA GALLERIA LIA RUMMA
In galleria, inaugurato appena dopo lo spettacolo, un percorso multilinguistico con immagini fotografiche, sculture interattive e parole tratte dallo spettacolo allestite come opere a sé, in un percorso di balance emotivo tra bianchi e neri, peso e levità, vita e morte (Holding the skeleton, The jump), che costruisce quasi un tao di equilibrio tra stanze e opere Yin e Yang, equilibrate in un fulcro centrale che invita il fruitore a prendere posizione e farsi ago di bilancia e consapevolezza di scelta, col suo rispecchiamento in Artist portrait with a candle.
Non è possibile considerare la mostra senza lo spettacolo, e viceversa. È evidente che Marina, maestra di seduzione e coinvolgimento delle masse, è ormai capace di usare come sua materia prima la platea culturalmente avvertita o curiosa di una intera città – un po’ come nel 2010 New York con The artist is present – e lo stesso confine di contatto tra differenti istituzioni dell’arte, che con la sua virtuosa manipolazione creativa diviene appunto limen di unione, e non più di separazione.
L’AMORE FRA MARIA CALLAS E MARINA ABRAMOVIC
È dunque una operazione di respiro molto più ampio che non il semplice moltiplicare canali. Una riflessione societaria di politica culturale, una estensione dialogica in tempi diversi, ma anche un atto sciamanico arteterapeutico globale attraverso un’arte totale. Del resto, da anni l’artista forgia se stessa e la sua ricerca attraverso filosofie e tecniche di meditazione e spirituali, olisticamente integrando anima e corpo e individuando nelle sue parole “l’amore universale” come suo core tematico, dopo anni di indagine sul conflitto.
Amore che rivive sul palco e nel film riproposto in galleria come individuale vicenda, capace però di assurgere a simbolo universale, nel dolore ed estasi delle eroine liriche, e della loro stessa tormentata interprete Maria Callas, in costante travaso tra la sensibilità e vita della musicista e dell’artista. Amore cui invita ogni spettatore, quando al termine dello spettacolo coinvolge tutto il pubblico in una breve performance meditativa per il dolore dell’Ucraina. Ma anche amore che la stessa Abramovic offre a ciascun visitatore, nel momento in cui in mostra gli offre dispositivi-sculture come Black Dragon per riarmonizzare i chakra attraverso la forza, inscindibilmente estetica e cristalloterapica, delle pietre di cui è composta.
Quasi finestra o gate dimensionale, la stanza in galleria con la proiezione dello stesso film dello spettacolo si unisce dunque al palco in un metaverso estetico che mescola presenza e ubiquità dell’artista, individualità del fruitore e suo globale rispecchiamento nella Callas e nella Abramovic, trascendendo linguaggi e dimensioni e moltiplicando anime e corpi in una fusione davvero universale. Che interroga e invita a cercare in essa cammino e posizione, e il senso dentro sé.
Ancora in cerca, inafferrabile, incompiuta, nonostante – o forse grazie a – i consapevoli superiori attraversamenti: è questa l’arte, ed è questa la vita.
– Diana Gianquitto
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