La pittura “opaca” di Mary Weatherford a Venezia
A Palazzo Grimani, le tele oggettuali dell’artista americana funzionano come enigmi visivi, da decifrare tramite la sensazione. Una poetica peculiare, che lavora su concetto e fisicità
Sembra sottrarsi alla visione, piuttosto che manifestarsi apertamente, la pittura di Mary Weatherford (Ojai, 1963). Entrando nella sua mostra veneziana a Palazzo Grimani dopo aver sperimentato l’eloquenza di Georg Baselitz, protagonista di una mostra concomitante, lo sguardo si incaglia in superfici opache e oscure dove la pittura sembra voler negare se stessa. L’operazione di “scavo” che lo sguardo è tentato di compiere risulta inappropriata: nonostante l’origine figurativa (lo spunto è un capolavoro di Tiziano), i dipinti vanno osservati come massa compatta, afferrandone la sensazione più che la struttura interna. L’accessorio costituito dai tubi al neon applicati al dipinto è come un’ancora verso l’oggettualità e la realtà, ma anch’esso viene in fondo inglobato nella compattezza visiva del dipinto.
LA PITTURA DI MARY WEATHERFORD A VENEZIA
Senza sfociare in una poetica “atmosferica”, l’operazione concettuale dell’artista si incarna in una pittura fisica fatta di sensazioni, antirappresentativa anche oltre il concetto abituale di astrazione. Accettando il rischio di sembrare passatista, l’artista americana trova una formula non facile da decifrare ma inedita, che consiste nell’affrontare simultaneamente dimensione concettuale e concreta del quadro. Fino a far coincidere una e l’altra ed essendo, dunque, pienamente postmoderna.
‒ Stefano Castelli
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