Adelaide Cioni, Matteo Fato e Franca Maranò: tre opere viste a Panorama

Adelaide Cioni, Matteo Fato e Franca Maranò: tra storia e generazioni, tre opere a Monopoli che hanno a che fare con la traccia, la memoria e il confine labile tra arte e quotidiano

Memoria, confine labile tra arte e quotidiano, traccia. Sono questi i tratti che accomunano tre opere di Adelaide Cioni, Franca Maranò e Matteo Fato in mostra fino al 4 settembre a Monopoli, nell’ambito di Panorama, la rassegna a cura di Vincenzo de Bellis e promossa dal consorzio delle gallerie Italics. Vediamole nel dettaglio

Christian Caliandro

ADELAIDE CIONI, À PROPOS DE BACCHELLI 5

Adelaide Cioni, à propos de Bacchelli 5 (2015), Complesso di S. Leonardo | P420, Bologna

Adelaide Cioni, à propos de Bacchelli 5 (2015), Complesso di S. Leonardo | P420, Bologna

L’artista sta per lasciare la casa in cui ha vissuto per trentacinque anni (dall’anno della sua nascita, il 1976, fino al 2011): prima di andarsene, incide sulla pellicola fotografica con una punta metallica le linee e i contorni degli oggetti cari (scalini, sedie, mattonelle, interruttori, termosifoni, finestre, porte, lavandini, alberi, fiori…). Sono 240 diapositive proiettate in sequenza su tre schermi (80 per ogni schermo), in uno degli spazi affascinanti del Complesso di S. Leonardo. È un’impressione, letterale, della memoria sulla superficie (“imprimere nella memoria”): un tentativo, attraverso il segno, di trattenere e di non lasciar andare i ricordi. Anche quando il tratto sembra astratto, quando mostra semplici linee, siamo coscienti del fatto che sta ricalcando fedelmente dei particolari – è un ricordo concretizzato, materializzato, fissato prima di scomparire. L’opera è accompagnata e integrata dal libretto con Qualche considerazione sull’idea di casa: “casa è dove posso posare i miei oggetti senza pensare a quando dovrò portarli via. La casa è un tempo quindi”; “Dentro la casa io e gli oggetti siamo in un rapporto di identità nel tempo”; “In casa non succede mai niente, casomai si radica qualcosa”.

FRANCA MARANÒ, ABITI MENTALI (1977)

Franca Maranò, Abiti mentali (1977), Complesso di S. Leonardo | Richard Saulton Gallery, Londra-Roma

Franca Maranò, Abiti mentali (1977), Complesso di S. Leonardo | Richard Saulton Gallery, Londra-Roma

Questi abiti di tela medievale, panno rosso e filo di cotone nero (esposti per la prima volta alla galleria Centrosei di Bari) rappresentano la personale fuoriuscita di Franca Maranò (1920-2015) rispetto all’opera tradizionale: fondono infatti pittura, scultura, performance, installazione; sono al tempo stesso lavori da esporre e oggetti da indossare, da adattare al corpo. L’“abito” essenziale e quasi francescano – con due aperture laterali per le braccia e una centrale per la testa – diventa “abito mentale”, habitus, habit, abitudine: diventa dunque comportamento, disposizione; è la concretizzazione, la materializzazione e la realizzazione di un processo squisitamente intellettuale. Come affermò l’artista nel 1983: “Col tempo, il mio discorso ha acquisito una maggiore densità umana e, per un processo venuto a svilupparsi dall’interno verso l’esterno, la mia opera è divenuta indossabile e ha assunto con la realizzazione dell’abito mentale uno specifico segno di identità comportamentale”.

MATTEO FATO, SENZA TEMPESTE, SENZA NAUFRAGIO E SENZA ALCUN MERITO NOSTRO

Matteo Fato, senza tempeste, senza naufragio e senza alcun merito nostro (2022), Chiesetta di S. Giovanni | Monitor, Roma-Lisbona-Pereto

Matteo Fato, senza tempeste, senza naufragio e senza alcun merito nostro (2022), Chiesetta di S. Giovanni | Monitor, Roma-Lisbona-Pereto

Anche il progetto di Matteo Fato (1979) ha a che fare con le tracce. Tracce di fuochi d’artificio per i festeggiamenti della Madonna della Madia, protettrice di Monopoli. La pittura è la traccia di una memoria non vissuta, la nostalgia di un ricordo ricostruito, che non è personale ma collettivo, che non appartiene all’artista ma alla comunità. Appropriazione e identificazione: con il tessuto e lo spazio sociale di Monopoli, ma anche con la bella chiesetta di S. Giovanni (riaperta appositamente per l’occasione).
I ricordi collettivi del paese si mescolano con quelli personali e autobiografici: le due mani dipinte sulla piccola tela (Souvenir) esposta nella stanza dell’acquasantiera sono quelle dei genitori dell’artista, che compongono un intreccio, una sorta di zattera – come la zattera dalla quale, secondo la leggenda locale, fu costruito il tetto della cattedrale (del resto, come mi fa notare Matteo, souvenirsignifica letteralmente “venire in aiuto”). La sua è un’opera, come spesso avviene, fatta di continui rimandi, rispecchiamenti, scarti: dal livello principale si passa infatti naturalmente a quello solo apparentemente secondario, marginale; ciò che sembra una distrazione non lo è affatto. Così, anche la “pulizia del pennello”, con gli scarti del colore sullo straccio, è una sorta di sindone del dipinto – una sua traccia fedele – e come tale assume una posizione centrale. È un atto di fede, esattamente come la pittura, come l’arte.
Infine, anche il testo di Gianni Carrera (autore con il quale Matteo Fato collabora da alcuni anni), stampato sulla cartolina che completa il progetto, non è una descrizione dell’opera ma piuttosto una sua anticipazione, il racconto della sua leggenda. Anche il testo è una zattera, un veicolo di salvezza: una cassa da trasporto, qualcosa che protegge e che al tempo stesso è strumento di lavoro costante.

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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