La Biennale di Venezia dovrebbe avere un direttore, non un curatore
Perché il direttore della Biennale di Venezia non torna a essere tale? Con questa domanda provocatoria la storica dell’arte Laura Cherubini riflette sulla mostra di Cecilia Alemani. E loda il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti
“Darei l’intera Montedison per una lucciola”, scriveva Pier Paolo Pasolini quasi all’epilogo della sua vita, nel 1975. Questa frase Pasolini la scrisse in un articolo intitolato Il vuoto di potere in Italia (Corriere della Sera, 1/2/1975), meglio noto come L’articolo delle lucciole. Quale sia il nesso tra i due temi emergerà da un’attenta lettura dell’articolo. Le lucciole cominciano a sparire nei primi Anni Sessanta, a causa dell’inquinamento, e bastano pochi anni per far sì che esse siano un ricordo che Pasolini definisce “straziante”. Non possiamo non collegare questo aggettivo al finale di un brevissimo film gioiello, Che cosa sono le nuvole (1967): Pasolini mette in scena l’Otello all’interno di un teatrino dei burattini, alla fine della rappresentazione il pubblico popolare si rivolta contro Otello-Ninetto Davoli e Jago-Totò (alla sua ultima apparizione) e i due burattini vengono gettati in una discarica da un mondezzaio canterino, Domenico Modugno. Da lì, fuori dal teatrino, con gli occhi rivolti al cielo, i due vedono per la prima volta le nuvole e Totò esclama: “Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato!” (pare si tratti di una citazione da Baudelaire). Straziante è la bellezza, straziante la natura, straziante il ricordo. Prima durante e dopo la scomparsa delle lucciole, i valori subiscono una radicale metamorfosi. Ma qualcosa potrebbe aver già riempito il vuoto che nel frattempo si è creato.
IL PADIGLIONE ITALIA DI GIAN MARIA TOSATTI
Dalla frase finale di quell’articolo Gian Maria Tosatti è partito per edificare il suo luogo al Padiglione italiano alla Biennale di Venezia, la sua distopia/utopia, un’opera nella quale dobbiamo calarci, che dobbiamo abitare, nella quale dobbiamo vivere attraversandola. Invitato dal curatore Eugenio Viola al Padiglione nel grande antro delle Tese all’Arsenale, “Tosatti agisce come un consumato archeologo del presente, che sembra divertirsi a cannibalizzare i detriti della civiltà industriale italiana” (Viola nel suo bellissimo testo), quelle macchine che avrebbero ancora voglia di lavorare e sono invece destinate a una malinconica dismissione. Tosatti rilegge la storia italiana attraverso la storia della sua industria avviata al declino, cercando il punto in cui l’Italia si è persa, raccontando la sua Storia della notte. “Attenzione: la percezione richiede impegno” aveva scritto Antoni Muntadas sul Padiglione spagnolo nel 2005 e in questo caso veramente sono richiesti al cosiddetto spettatore (che non è più solo tale) il massimo impegno e la massima attenzione, a odori, rumori… scricchiolio del pavimento dell’appartamento (del custode? del proprietario?) annesso agli ambienti della fabbrica, immaginaria eppure così reale. Il piccolo ambiente della casa è struggente, come una tremolante lampadina.
La letteratura industriale ha una tradizione in Italia. Del periodo del boom economico parla il romanzo di Ottiero Ottieri Donnarumma all’assalto (1959), basato sull’esperienza autobiografica dello scrittore allo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, dove era stato assunto per analizzare i candidati e poteva determinare la sopravvivenza o la rovina di un operaio e della sua famiglia.
“Nel 1968 (Felice viveva già da alcuni anni fuori dall’Italia), guanti e scarpe tiravano ancora alla grande. Appartamenti, bassi, scantinati erano un solo fremere di dita esperte e laboriose. Tutti all’opera. Anche i bambini. Anche i vecchi. D’estate, in molti vicoli, le macchine per cucire venivano parcheggiate all’esterno: le donne cantavano in coro, spesso gareggiando tra loro in velocità di esecuzione. Anche sua madre si trasferiva con la sua Singer giù nella strada, e cantava assieme alle altre. Era una festa attraversare quei budelli illuminati a giorno dove l’allegria sembrava lubrificare l’efficienza e moltiplicare la produttività. Quando poi una donna inaugurava una Singer nuova di zecca, acquistata firmando un mucchio di cambiali, era l’intero vicolo a esultare: si brindava come fosse nato un bambino. Perlopiù le macchine venivano noleggiate: cinquecento lire a settimana. Oppure concesse in uso dal datore di lavoro (in modo non gratuito): il loro possesso costituiva insomma un traguardo sociale e soprattutto un trampolino di lancio, il primo passo verso una possibile futura autonomia produttiva” (Ermanno Rea, Nostalgia, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2018, pp. 70-71). Queste parole mi venivano in mente ripercorrendo Storia della notte e destino delle comete e attraversando la bella pubblicazione che l’accompagna. Uno dei testi-guida è un altro libro di Mimì Rea, La dismissione, che racconta dell’Ilva di Bagnoli e del destino della Napoli operaia in quella baia incantata, di quella dismissione “bullone per bullone” che dovrà essere il capolavoro dell’operaio specializzato Vincenzo Buonocore. Ma la struggente descrizione di Nostalgia di quella storia è un controcanto gentile e femminile. Se il Rea de La dismissione e il Tosatti di Storia della notte e destino delle comete cantano il dolente destino dell’industria napoletana e italiana, Nostalgia, un inno al quartiere natale di Mimì Rea, la Sanità, narra di una sorta di industria diffusa, di un lavoro domestico, e nero, di cui è emblema una macchina da cucire, la Singer, che può cambiare la vita delle donne del rione, cuore gaudioso e doloroso di quella Napoli in cui Eugenio è nato, in cui Gian Maria si è immerso.
TOSATTI FRA PASOLINI E VISCONTI
“Ora che la Montedison è andata, possiamo avere indietro anche quella sola lucciola?” si è chiesto Gian Maria. Ascoltando il “grande silenzio” e risalendo l’Italia industriale “bullone su bullone” scopre che “sono tornate le lucciole. Io sono disposto a seguire le loro luci fino alla fine della notte”.
Abbiamo discusso molto con Andrea Cortellessa, dopo aver visitato il Padiglione italiano, del tema della dedica a Pasolini (intellettuale che ha comunque ispirato l’intero percorso di lavoro di Tosatti). Io vedevo il Padiglione come una esecuzione del mandato di Pasolini, Andrea lo vedeva vicinissimo a un altro grandissimo regista italiano, Luchino Visconti. Pensiamo a Rocco e i suoi fratelli che è un film del 1960: è un’opera sul passaggio dell’Italia da Paese agricolo e rurale a Paese urbanizzato e industrializzato. Alla fine abbiamo concluso che se Pasolini è il tema, l’argomento, il contenuto di questa grande opera, lo stile è affine a quello impeccabilmente storico, accurato in ogni significante dettaglio, di Visconti. Se Pasolini è ellittico, Visconti è analitico. Io aggiungevo anche che dovremmo ricordare che, quando in Mamma Roma, all’apparizione in scorcio della figura di Ettore Garofolo legata al tavolaccio del carcere, qualche critico aveva evocato il Cristo morto di Mantegna, Pasolini era insorto, invocando il maestro Longhi: non basta vedere un paio di piedi in scorcio per parlare di Mantegna (cioè non basta l’iconografia), ma non vedono che qui c’è una sublime mistura di Masaccio e Caravaggio (sul piano dello stile, quello della forma in cui, secondo Sklovskji, si esprime la collettività)… Potrei dunque concludere scrivendo che certo il tema è pasoliniano, lo stile della prima parte viscontiano, ma nell’epilogo Pasolini si riaffaccia anche nello stile: le lucciole si riprendono la scena su un mare nero, fosco, in tempesta e alludono a un sintetico arco temporale, passato, presente e futuro. Su quel mare siamo nel nostro presente, su un molo incerto e pencolante verso gli abissi, in bilico tra il passato oscuro che ci siamo lasciati alle spalle e la premonizione di un futuro in cui le lucciole possano riapparire.
LA MOSTRA DI CECILIA ALEMANI
Ora spostiamo lo sguardo su una ben diversa mostra all’interno della stessa Biennale. Non c’è dubbio che, complici anche il rinvio e i collegamenti necessariamente online (sono la stessa cosa rispetto alla fisicità delle visite in studio? È lecito domandarselo), la direttrice Cecilia Alemani abbia svolto un enorme lavoro di ricerca per la sua mostra dal titolo, tratto da un libro di Leonora Carrington, Il latte dei sogni. Ricerca che però è stata talmente ampia da aver generato un altissimo numero di opere esposte.
Quando André Breton pubblica il suo grande libro L’arte magica lo correda con una Inchiesta rivolta ad artisti, filosofi, scrittori. Tra questi Carrington, che non fornisce risposte a ogni domanda, ma risponde con un breve testo complessivo in cui definisce il suo stile “prezoologico” e si augura che l’artista possa di nuovo tornare un mago. A questo pensiero magico è in qualche modo dedicata la mostra internazionale curata da Alemani. Il catalogo de Il latte dei sogni è densissimo e molto articolato, al punto da costituire in un certo senso la vera mostra. Prendendo Carrington come punto di partenza, Alemani si riallaccia alla grande tradizione del Surrealismo. L’altra metà del Surrealismo, Carrington, Leonor Fini, Meret Oppenheim… declina questo pensiero in forme sofisticate intellettualmente e artisticamente. Ma se il grande allargamento della ricerca nel catalogo produce differenza, complessità, profondità, nella mostra rischia di produrre ripetizione soprattutto a causa delle tantissime opere esposte. All’interno della mostra che occupa il Padiglione centrale ai Giardini e buona parte dell’Arsenale a partire dalle Corderie, Alemani ha acutamente disseminato Capsule del tempo, piccole mostre a carattere storico, tematiche, con attraversamento cronologico. Una di queste capsule è ispirata a Materializzazione del linguaggio, la mostra che riabilita la presenza femminile e che nel 1978 l’artista Mirella Bentivoglio era stata incaricata di curare dall’allora Presidente Carlo Ripa di Meana (una presidenza che meriterebbe approfondimenti per essersi rivelata fortemente anticipatrice: la Biennale dedicata al Cile ispirò Okwui Enwezor per la sua e la Biennale del dissenso potrebbe parlarci molto dell’oggi). “Dunque ciò che prima mancava non era la qualità, bensì soltanto l’informazione”, aveva scritto Bentivoglio. Ora abbiamo l’informazione, speriamo non manchi la qualità. Nonostante le dichiarazioni di Alemani, che asserisce che non è particolarmente interessante sapere se la mostra sarà etichettata come “politicamente corretta” o come “la Biennale delle donne”, sarà difficile sfuggire a queste definizioni, poiché corrispondono ai criteri di impostazione dell’esposizione. Ai Giardini la mostra presenta un allestimento di tipo museale molto tradizionale, con numerose presenze già consolidate. Dispiace che non siano rappresentate altre artiste italiane come l’astrattista Bice Lazzari (che però fortunatamente ha una piccola e raffinata mostra a Ca’ Pesaro) ed Elisa Montessori. Ed ecco che il racconto riprende con tutt’altro tono all’Arsenale, mai come in questa edizione così fitto di opere di cui colpisce spesso l’aspetto muscolare. Aspetto che si mostra subito all’ingresso nella mostra con Brick House, monumentale busto in bronzo di Simone Leigh. Portia Zvavahera pensa alla pittura come forma di catarsi spirituale. Rosana Paulino utilizza vari mezzi, dal ricamo al disegno. Britta Marakatt-Labba viene da una famiglia di allevatori di renne e si esprime con poetici ricami. Molte le opere che si rifanno a tecniche artigianali, aspetto peraltro già messo in luce dalla Biennale di Christine Macel. La norvegese Liv Bugge è cresciuta tra i cani da slitta e i protagonisti della videoinstallazione (in casse di legno che ricordano cucce per cani) sono non umani, ma husky, dai quali l’artista ha appreso il linguaggio non verbale. Un discorso a parte comunque meriterebbero i video, piuttosto rari, dove il livello qualitativo (non sempre presente in alcune opere pittoriche), è buono, ma le tematiche sono iterate e attengono in genere ai cambiamenti climatici: Thao Nguyen Phan, l’uzbeka Saodat Ismailova, il cinese Zheng Bo. C’è il video dell’italiano Diego Marcon; uso poetico del video fa Sondra Perry. Uno dei più interessanti è alla fine: sulle acque delle Gaggiandre Wu Tsang proietta una videoinstallazione ispirata al capolavoro di Melville Moby Dick dal punto di vista della balena. Incapsulata nella sezione dedicata a zucche e gusci, scatole e pentole, Ruth Asawa è rappresentata da sculture sospese di fili di rame o di bronzo, meno liriche e libere delle trame della nostra Marisa Merz, ma forse avrebbe meritato uno spazio maggiore e un maggiore approfondimento. Dopo tante “grosse” pitture e sculture, dà un certo sollievo imbattersi nella grande installazione della colombiana Delcy Morelos che parla del nostro rapporto con la madre terra. Sandra Vàsquez de la Horra (cilena, vive a Berlino) fa rivivere in modo originale l’antica tecnica del disegno e sigilla i dipinti con la cera tramandandoci miti e riti. La migliore presenza in assoluto ai miei occhi è Noah Davis, artista e curatore americano scomparso a soli trentadue anni, con dipinti di altissima qualità. L’altra opera che emerge è il lavoro fotografico di Joanna Piotrowska. Delude invece un po’ il lavoro di Precious Okoyomon che aveva suscitato aspettative: il suo giardino di rampicanti infestanti non appare perfettamente messo a punto. Perché abbiamo dimenticato Maria Thereza Alves?
UNO SGUARDO AI PADIGLIONI NAZIONALI
Tra i padiglioni fortemente emerge il Belgio con Francis Alÿs, ma anche la Francia con Zineb Sedira. Mentre il grande numero di opere ha reso difficile una lettura nitida de Il latte dei sogni, il padiglione della Danimarca, dove è protagonista una famiglia di centauri, ha proposto una riflessione su temi simili in modo stringato, essenziale e netto. Da ricordare anche l’Ucraina con l’opera di Pavlo Makov, il Brasile con Jonathas de Andrade, la Svizzera con Latifa Echakhch e il Canada con Stan Douglas. Da notare che il padiglione italiano non è il solo a essere rappresentato da un artista italiano, ma ci sono anche Malta con Arcangelo Sassolino e l’Australia con l’artista-musicista (nato a Melbourne da genitori italiani) Marco Fusinato. Da registrare anche la presenza di Giuseppe Stampone al padiglione di Cuba.
Mi preme comunque segnalare il fatto che il Padiglione italiano è finalmente un padiglione “normale”, con un solo curatore che sceglie un solo artista a rappresentare il Paese (cosa che auspicavo da quando nel lontano 1990 ero stata tra i curatori del padiglione). Ogni due anni i protagonisti cambieranno, come in genere avviene per gli altri Paesi (i padiglioni che hanno scelto di trasformarsi in piccole mostre collettive non hanno dato in genere le prove migliori). Ma in questa edizione credo che l’Italia abbia offerto una riflessione critica sulla propria storia e sul proprio passato prossimo molto attenta e profonda. Uguale spessore troviamo nel catalogo, dove emerge con forza la potente chiave di lettura fotografica fornita da Mimmo Jodice. Nel suo saggio tanto preciso quanto vibrante Eugenio Viola così descrive la parte finale della complessa opera: “Una fila di lampioni stradali semisommersi suggerisce che di fronte a noi deve esserci stato un piazzale e una strada, fino a poco prima. Ma ora c’è solo acqua scura che ha invaso tutto, la cui forza ci ricorda come la Natura oltraggiata non perdoni mai l’Uomo. Sin dalla notte dei tempi… Credere al bagliore erratico delle lucciole, significa accordare fiducia al proprio tempo e alla possibile epifania dell’immagine”.
La Biennale è basata sulla struttura di una doppia ottica, quella dei singoli Paesi attraverso lo sguardo di curatori che ne conoscono a fondo la situazione e quello della mostra (o delle mostre) internazionale curata dal direttore e/o da curatori da lui scelti.
LE MOSTRE DA VEDERE A VENEZIA
Ma a Venezia intorno alla Biennale sorgono tanti eventi collaterali e tante altre mostre che ne fanno uno straordinario arcipelago dell’arte contemporanea. Porto soltanto due esempi, uno monografico e uno mirato su un linguaggio. Splendida la mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Ducale nella sala dove venivano eletti i Dogi: il titolo, Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce è tratto dal filosofo Andrea Emo che per tutta la vita ha scritto trecentoventidue quaderni, senza mai pubblicarli, ed è stato riscoperto da Massimo Cacciari. Kiefer riflette sulla storia, sulla memoria, sulla stessa città di Venezia, soglia tra Oriente e Occidente. Particolarmente interessante Penumbra al Complesso dell’Ospedaletto, otto nuove opere video e filmiche commissionate da Fondazione In Between Art Film ad altrettanti artisti. Ricordiamo soprattutto Takbir dell’artista afghano Aziz Hazara che racconta che, come durante l’occupazione sovietica gli abitanti di Kabul approfittavano dell’oscurità notturna per protestare, così nel 2021 gli afghani tornarono sui tetti per gridare il Takbir, mentre sia il governo in carica che i talebani tentavano di strumentalizzare il fatto per propaganda, e Pantelleria, un’opera di Masbedo, che fa riferimento a un incredibile episodio: il violento bombardamento dell’isola nel 1943 da parte degli alleati e la replica effettuata per girare le riprese di un combat film di propaganda. L’attualità di quest’ultima opera (che ha richiesto due anni di lavorazione) è molto forte. La varietà e la qualità della maggior parte dei progetti presentati arricchisce la stessa Biennale.
Da tutto quanto abbiamo detto nasce una riflessione sulle modalità espositive e sulla tipologia delle diverse mostre e nasce principalmente una considerazione. Siamo certi che una mostra unica sempre più gigantesca, nella logica del Salon, giovi alla Biennale? Possiamo ragionare con una logica diversa? Possiamo pensare a qualche precedente in cui il direttore ha fatto il direttore e non il curatore di una mega mostra, per esempio all’edizione del 2003, quando Francesco Bonami chiamò diversi curatori per diversi progetti in cui lui era solo parzialmente coinvolto, una mostra delle mostre, polifonica, con prospettive diverse sull’arte contemporanea, da Catherine David a Hou Hanru a Massimiliano Gioni ad Hans Ulric Obrist…
Credo che una logica del genere donerebbe alla Biennale maggiore articolazione, maggiore leggibilità e una grande capacità di rigenerarsi.
Lunga vita alla Biennale di Venezia!
‒ Laura Cherubini
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