La fragilità al centro. Ecco com’è la 16esima Biennale di Lione

Sam Bardaouil e Till Fellrath curano una grande mostra tripartita che permette di esplorare in lungo e in largo la seconda città di Francia. Il fil rouge è la fragilità, ma in un'ottica costruttiva e talora addirittura combattiva

Manifesto of Fragility è il tema della 16esima Biennale di Lione, curata dalla ormai rodata coppia composta da Sam Bardaouil e Till Fellrath, direttori della Hamburger Bahnhof di Berlino nonché commissari del notevolissimo Padiglione Francia alla Biennale di Venezia 2022.

16. Biennale de Lyon. Musée Guimet. Nadine Labaki & Khaled Mouzanar, Le Monde va à la guerre et moi j'en reviens, 2022, still da video

16. Biennale de Lyon. Musée Guimet. Nadine Labaki & Khaled Mouzanar, Le Monde va à la guerre et moi j’en reviens, 2022, still da video

LIONE E IL MANIFESTO DELLA FRAGILITÀ

Due dunque i termini chiave: “fragilità”, intesa non “come un segno di debolezza, bensì come un fondamento dell’emancipazione” (doveroso ricordare che questa edizione dista tre anni dalla precedente ed è stata preparata in buona parte durante le fasi più critiche della pandemia); e “manifesto”, che denota un approccio collettivamente proattivo e performativo, ovvero di proposizione nei confronti dei temi trattati e non soltanto di lettura passiva dello status quo.
Questo nodo, composto da un concetto e da un approccio, si declina in tre cerchi concentrici: il primo è individuale, incarnato dalla figura di Louise Brunet, donna realmente esistita che diventa simbolo di uno status che si ripropone lungo i secoli e i continenti; grazie alla sua microstoria emerge il legame tra Lione e Beirut, e ciò dà luogo al secondo cerchio, in cui la fragilità si declina nel racconto di uno specifico periodo della capitale libanese; infine, il cerchio più ampio assume una dimensione globale, in cui il tema si relaziona con la promessa di futuro, con la speranza, con la resilienza.
A raccolta sono stati chiamati 200 artisti (non tutti contemporanei) provenienti da 40 Paesi, con 66 commissioni ad hoc e il coinvolgimento di 12 luoghi.

16. Biennale de Lyon. MAC. Les nombreuses vies et morts de Louise Brunet. Photo Marco Enrico Giacomelli

16. Biennale de Lyon. MAC. Les nombreuses vies et morts de Louise Brunet. Photo Marco Enrico Giacomelli

LA STORIA DI LOUISE BRUNET

Louise Brunet aveva partecipato alla Rivolta dei Canut, ovvero degli operai e delle operaie del settore tessile lionese. Nel 1834 fu imprigionata e, dopo qualche anno, diciottenne, si imbarcò insieme a una ventina di donne alla volta del Monte Libano, per lavorare nella fabbrica del mercante di seta Nicolas Portalis. Dopo qualche mese, tuttavia, da una lettera inviata alla sorella apprendiamo che le condizioni lavorative a Btetir sono infernali: Brunet organizza una rivolta, poi fugge. Da allora, di lei si perdono definitivamente le tracce.
La mostra al MAC è articolata in sette sezioni “che raccontano ognuna la storia di un individuo immaginato come una manifestazione differente di Louise Brunet”, spiegano i curatori; ad esempio, “una donna senegalese nera che fugge dall’esposizione coloniale di Lione del 1894”.
La storia è tragicamente affascinante, il personaggio di sicuro appeal. Tuttavia la mostra al terzo piano del museo risulta piuttosto confusionaria a causa di un allestimento fitto fitto e dal concatenamento quasi asfissiante delle sezioni, ognuna delle quali si potrebbe sviluppare in una mostra a sé stante. Alla fine, le porzioni più squisitamente documentarie prendono il sopravvento sugli interventi contemporanei, che spesso paiono slegati dal discorso storico.

16. Biennale de Lyon. MAC. Beirut and the Golden Sixties. Huguette Caland. Photo Marco Enrico Giacomelli

16. Biennale de Lyon. MAC. Beirut and the Golden Sixties. Huguette Caland. Photo Marco Enrico Giacomelli

BEIRUT CHIAMA LIONE

Beirut and the Golden Sixties, al secondo e primo piano del MAC, racconta il modernismo della capitale libanese nel periodo compreso tra il 1958, anno della crisi, e il 1975, quando scoppia la guerra civile. Con 230 opere di 34 artisti e oltre 300 documenti d’archivio, si narra come la scena artistica di Beirut fosse “un microcosmo rivelatore di tensioni transregionali più ampie”.
La mostra è estremamente interessante, senza alcun dubbio. Una mostra museale di grande livello, non foss’altro per la quantità e qualità di ricerca che ha necessitato. Disorienta tuttavia un focus geo-storico di questo genere, in sé concluso, nel quadro di una biennale d’arte contemporanea. Che si tratti di un trait d’union stimolante e funzionale nel progetto generale dei curatori è chiaro, ma la verticalità dell’approfondimento pare eccessiva.
A confermare questa sensazione di “mostra autonoma”, il fatto che provenga dal Gropius Bau di Berlino (dove è stata allestita fino allo scorso giugno, e Berlino non è così distante da Lione) e che, nel 2023, sarà montata al Mathaf di Doha. Certo, alcuni elementi sono specifici in questa tappa lionese, ma d’altra parte non succede quasi sempre con le grandi mostre itineranti?

16. Biennale de Lyon. Anciennes usines Fagor. Eszter Salamon, Study for the Valeska Gert Pavilion, 2022. Photo Marco Enrico Giacomelli

16. Biennale de Lyon. Anciennes usines Fagor. Eszter Salamon, Study for the Valeska Gert Pavilion, 2022. Photo Marco Enrico Giacomelli

LA PROMESSA INFINITA DI SAM BARDAOUIL E TILL FELLRATH

Une monde d’une promesse infinie, cuore pulsante della Biennale, si dispiega in dodici venues, alcune delle quali coinvolte per la prima volta dalla rassegna lionese. 88 sono gli artisti, provenienti da 39 Paesi, i quali “incarnano differenti volti della fragilità, alcuni attraverso le problematiche che affrontano, altri attraverso i materiali che utilizzano”, secondo le parole dei curatori.
In luogo della Sucrèrie, che fino a un paio di edizioni fa era il quartier generale della Biennale, quest’anno il ruolo è svolto dalle Usines Fagor. 29mila metri quadri, la fabbrica ha chiuso definitivamente nel 2015 e dal 2023 sarà destinata ad altri usi. Da segnalare l’allestimento firmato dal belga Olivier Goethals, classe 1980, che ha fatto un lavoro eccellente in spazi di una complessità disarmante.
Paradossalmente, qui dove il tema allarga le proprie maglie insieme all’articolazione degli spazi, dove dunque sarebbe stato facile perdersi, in senso letterale e metaforico, la mostra funziona. Funziona perché rende con coerenza le fragilità dei punti di forza – un concetto palesato assai efficacemente dall’impalcatura semicoperta che ospita la Collection du Musée des Moulages e dai container che albergano la Collections du Musée des Hospices Civils, due collezioni fragili per definizione. E fragilmente punk sono i danzatori e le danzatrici che, omaggiando Valeska Gert (1892-1978), eseguono le coreografie di Eszter Salamon. Fragilissime, ancora, le foglie manualmente scheletrizzate da Nadia Kaabi-Linke nel poeticissimo Le chuchotement du chêne.

16. Biennale de Lyon. Anciennes usines Fagor. Markus Schinwald, Panorama, 2022. Photo Marco Enrico Giacomelli

16. Biennale de Lyon. Anciennes usines Fagor. Markus Schinwald, Panorama, 2022. Photo Marco Enrico Giacomelli

STORIA E MEMORIA ALLA BIENNALE DI LIONE

Restando nelle hall dell’ex fabbrica Fagor, l’esordio nel percorso spetta alla slovacca Lucia Tallová, che soavemente ci rammenta quanto siano effimeri i ricordi, utilizzando esili strutture in legno, mobili di risulta, brandelli di fotografie e materia nera di diverse fogge. La cromia domina come di consueto anche il grande ambiente di Hans Op de Beeck (fra i pochissimi “nomi” convocati da Bardaouil e Fellrath), impegnato in We Were the Last to Stay: un brano di città totalmente privo di presenza umana, in scala 1:1, su cui è colata una patina grigia che ha risparmiato soltanto un corso d’acqua.
Sono brani di storia recente, recentissima e attuale, l’imponente tela di cinquanta metri di lunghezza dipinta da Sylvie Selig (Stateless, 2017-19), dove si narra delle traversie di una giovane rifugiata, mentre i ventotto personaggi che compongono la Weird Family (2006-22) stazionano surreali di fronte al dipinto. Altra tela imponente è Window (2022) di Mohammed Kazem, con i corpi accalcati dei lavoratori in attesa di salire sull’autobus che li porterà sul cantiere – che torni in mente quando guarderemo entusiasti le partite dell’imminente Campionato mondale di calcio in Qatar.
Gioca divinamente con la storia anche il Panorama di Markus Schinwald con le sue pitture allestite in un teatro della memoria che si ispira a Giulio Camillo. Qui busti romani mutilati e volti sfigurati della Prima Guerra Mondiale sono corrosi da glitch che rendono visivamente chiara la complessità alineare della Storia.

16. Biennale de Lyon. Lugdunum. Giulia Andreani, Sculpte ton porc, 2020

16. Biennale de Lyon. Lugdunum. Giulia Andreani, Sculpte ton porc, 2020

IL CORPO, LA GUERRA, IL PIANETA ALLA BIENNALE DI LIONE

Prima di lasciare gli immensi capannoni dell’ex Fagor, almeno un cenno per Mohamad Abdouni, il cui archivio fotografico aperto ha la forza di far migrare l’esperienza personale in una riflessione collettiva – l’argomento sono le identità queer e trans arabe.
Qualche parola la merita anche Lugdunum con il museo gallo-romano, situato nella collina di Fourvière, dove sono visibili le rovine straordinariamente conservate di due teatri risalenti all’antica città romana, fondata nel 43 a. C.. Il museo scavato all’interno della collina è un magnifico esempio di architettura brutalista, opera di Bernard Zehrfuss risalente al 1972-75. Le opere della Biennale sono disposte lungo il percorso dettato dalla rampa elicoidale che scende in profondità, dialogando con i reperti che fanno parte della collezione permanente del museo. Qui – ma anche nelle altre sedi in cui le sue opere sono esposte – spicca la presenza di Giulia Andreani, le cui tele accolgono un unico colore, il grigio di Payne, ad acrilico e acquerello.
Il Musée Gadagne, per la prima volta investito dalla Biennale, ospita il Musée d’Histoire de Lyon e il Musée de la Marionette. In questa sede chiamiamo in causa Jesse Mockrin, anche lei pittrice figurativa presente in varie sedi. Qui l’interesse è dettato non tanto dalla sua indubbia acribia tecnica, quanto dal perturbante che discende dall’accostare in maniera surreale particolari di dipinti biblici e mitologici.
Giungiamo infine al Musée Guimet: nel 2014 le collezioni di storia naturale sono state trasferite al Museé des Confluences, progettato da Coop Himmelb(l)au, e l’edificio era chiuso al pubblico da quindici anni. Ora è invece la sede “minore” più interessante della 16esima Biennale di Lione e contiene un gran numero di videoinstallazioni di livello egregio. In rapida successione, la nostra scelta ricade su Morgestraich di Clément Cogitore (recentemente ha esposto al Madre di Napoli e qui racconta in pochi minuti la magia [nera?] del carnevale di Basilea); sulla installazione multicanale di Mohammad Al Faraj, dove l’androide Sophia è accostata alla miseria in cui vivono milioni di esseri umani; sulla struggente animazione Le Monde va à la guerre et moi j’en reviens di Nadine Labaki & Khaled Mouzanar, dove la guerra si manifesta in tutta la sua insensatezza.
Ma al Guimet non ci sono soltanto video: ci sono, sparse qui e là, le piccole fotografie di Munem Wasif, che raccontano il declino dell’industria della juta in Bangladesh con due elementi soltanto, le mani dei lavoratori e i documenti contabili; all’altro capo della cubatura c’è l’enorme installazione di Ugo Schiavi, Grafted Memory System, un (eco)sistema composto principalmente da vegetazione che irrompe con tenacia dalle grandi teche in vetro, ibridandosi con elementi tecnologici che paiono integrarsi a malincuore con l’inarrestabilità naturale.

16. Biennale de Lyon. Musée Guimet. Ugo Schiavi, Grafted Memory System, 2022

16. Biennale de Lyon. Musée Guimet. Ugo Schiavi, Grafted Memory System, 2022

L’EDITORIA ITALIANA A LIONE

Brevissima nota conclusiva. È Silvana Editoriale a occuparsi delle pubblicazioni di questa Biennale di Lione: la Guide, agile e utilissimo strumento da portare con sé durante la visita, e poi i tre volumi che approfondiscono le tre rispettive sezioni della mostra.
In Italia si leggerà pure poco, ma gli editori nostrani non mancano di certo all’estero, e i nomi sono tanti, di tutte le taglie: da 5 Continents a Lenz, da Mousse a Skira.

Marco Enrico Giacomelli

Lione // fino al 31 dicembre 2022
16esima Biennale de Lyon – Manifesto of Fragility
a cura di Sam Bardaouil & Till Fellrath
Cataloghi Silvana Editoriale
www.labiennaledelyon.com
www.manifestooffragility.com

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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