L’arte contemporanea e il problema della semplificazione
Riduzione e semplificazione: sono questi i rischi a cui è sottoposta l’arte oggi. Il motivo? Imporre la comunicazione a tutti i costi
“Morris ammirava l’opera di Smith e affrontò un lungo viaggio in auto fino a South Orange, nel New Jersey, per intervistarlo. La seconda parte delle sue Note sulla scultura, pubblicata nell’ottobre 1966, si apre con una discussione sul ‘cubo di sei piedi in acciaio’ che si trovava nel giardino di Smith. ‘D: Perché non lo hai fatto più grande, così da farlo incombere sull’osservatore? R: Non stavo facendo un monumento. D: E allora perché non lo hai fatto più piccolo, così che l’osservatore potesse vederlo dall’alto? R: Non stavo facendo un oggetto’.” (Pepe Karmel, L’arte astratta. Una storia globale, Einaudi, Torino 2021, p. 78).
Una delle funzioni principali dell’arte (e della critica d’arte) è prepararsi per un mondo che non esiste – e che molto probabilmente non esisterà mai.
“Il problema del monumento, per Smith e Morris, risiedeva nel fatto che rendeva irrilevante l’osservatore. Analogamente, un oggetto creava un suo spazio ‘intimo’, irrelato allo spazio dell’osservatore. Solo le sculture in scala umana come DIE rendevano l’osservatore consapevole del suo rapporto spaziale con l’opera. Alcuni tra i migliori lavori recenti tengono le relazioni fuori dall’opera e le rendono una funzione dello spazio, della luce e del campo visivo dell’osservatore, col risultato di rafforzare la nostra consapevolezza di esistere nello stesso spazio dell’opera” (ibidem).
Trent Reznor, a partire da The Downward Spiral (1994) e The Fragile (1999), e ancora di più con Still, il secondo cd del live All That Could Have Been (2002), ha capito che i brani che sembravano incompiuti, semplicemente abbozzati (ghosts, fantasmi di canzoni…), in realtà non lo erano. Ha smesso per un po’, forse, di cercare la hit, il brano orecchiabile anche se di qualità, e si è messo in maniera del tutto zen ad assemblare frammenti musicali e scarti sonori: ecco quindi la collaborazione creativa con Atticus Ross, Ghosts I-IV (2007), le colonne sonore – The Social Network (2010), The Girl with the Dragon Tattoo (2011), in particolare The Vietnam War (2017) e Watchmen (2019) ‒, fino a Ghosts V: Together (2020) e Ghosts VI: Locusts (2020).
“La realtà completa, nuda e cruda, è indigeribile, inafferrabile, inaffrontabile. Tranne che nel caso dell’arte”.
Ogni contenuto complesso non è, per definizione, accessibile a tutti. Noi fruiamo continuamente di versioni semplificate: versioni semplificate non solo dei contenuti originali (le opere), ma della realtà stessa. Per rientrare infatti nel framework dell’informazione e della comunicazione generalista (il giornale, il telegiornale, il post, la story) la realtà deve essere infatti ridotta e fatta a pezzettini. La realtà completa, nuda e cruda, è indigeribile, inafferrabile, inaffrontabile. Tranne che nel caso dell’arte: l’opera che funziona a dovere è in grado di trasmettere porzioni importanti, non adulterate di mondo e di vita. È ciò che diceva Francis Bacon: “Ciò che voglio fare è distorcere la cosa molto al di là dell’apparenza, ma nella distorsione stessa riportarla a una registrazione dell’apparenza. (…) chi oggi è riuscito a registrare qualcosa, qualcosa che venga recepito come realtà, senza aver compiuto un grave scempio all’immagine?” (David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano 2003, pp. 36-37).
Il guaio è che nel tempo si è scelto anche per l’opera d’arte di adottare il tono comunicativo, che semplifica e riduce i dati a disposizione. Il risultato è che ci siamo disabituati alle trasmissioni integrali – che sono poi le esperienze profonde. Le esperienze profonde non ‘comunicano’, e neanche potrebbero avere come scopo quello di ‘comunicare’ (un ‘messaggio’, poi…): piuttosto dicono, esprimono.
È la stessa differenza che passa, in fondo, tra una poesia e un articolo di quotidiano.
(O tra un’opera d’arte che funziona e una che non funziona, se è per questo).
Dover specificare – in determinati contesti, in determinate occasioni, con determinate persone ‒ “sto scherzando”. Che tragedia che dev’essere.
Il punto non è l’arte comunitaria, o l’opera collettiva. Non c’è alcun obbligo, naturalmente, né alcuna prescrizione. La partecipazione (se è autentica e non decorativa o retorica) è uno degli elementi che entra, inevitabilmente, nel “risultato finale” – che comunque non esiste, perché è tutto parte del processo in corso, del processo che avviene. Momento per momento, giorno per giorno.
Ecco, il processo. Un’idea confluisce nell’altra, una pratica nell’altra. La relazione con gli “esperti” dei materiali e delle tecniche è fondamentale – ed è fondamentale anche il modo in cui questa relazione nasce e si costruisce, gli incontri che si succedono l’uno dopo l’altro e i dialoghi che nascono. Gli scambi.
‒ Christian Caliandro
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