La mostra di Giuseppe Capogrossi alla Galleria Nazionale di Roma
Non chiamatela retrospettiva antologica: la mostra alla Galleria Nazionale di Roma guarda all’arte di Giuseppe Capogrossi in maniera non convenzionale. A 50 anni dalla sua morte
Time is out of joint è il grido di battaglia quando si tratta di mostre che si tengono alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna (anzi La Galleria Nazionale, come si chiama ora). L’asserzione tratta da Shakespeare, marchio di fabbrica della svolta impressa sei anni fa dalla direttrice Cristiana Collu al gigante di Valle Giulia, è tuttora fonte di ispirazione per il palinsesto del museo. E vivaddio. Si traduce, per chi non lo sapesse, nel superamento di un’idea pedantemente storicistico-manualistica di impaginazione espositiva.
In questo caso, l’occasione è ghiotta per vedere gli esiti di una tale impostazione declinarsi su una retrospettiva monografica. E a maggior ragione perché si tratta di Giuseppe Capogrossi (Roma, 1900-1972), artista che mollò di netto la cosiddetta figurazione, all’inizio degli Anni Cinquanta, essendo già piuttosto conosciuto.
LA MOSTRA SU CAPOGROSSI A ROMA
La mostra cade nella ricorrenza dei cinquant’anni dalla morte dell’artista. Curata magistralmente da Francesca Romana Morelli, si compone di più di trenta dipinti, una ventina di opere su carta e un nutrito corpus di documenti d’archivio, molti dei quali emozionano perché in grado di proiettare l’osservatore direttamente nel cuore del secolo scorso. Quanto al suo carattere, la mostra vive degli accostamenti, forti e spesso riuscitissimi, orchestrati tra opere post e pre svolta aniconica, tra i lavori cioè – celeberrimi – incentrati sul tipico “segno”, e quelli, di tutt’altra concezione, riconducibili alla cosiddetta “scuola romana”. Così, i due raggruppamenti di opere vengono fatti dialogare, in modo vitale e anche urticante, prescindendo dal momento storico della loro realizzazione.
LE OPERE DI CAPOGROSSI ALLA GALLERIA NAZIONALE
Poiché da cosa nasce cosa, il merito della mostra sta anche in altro. In particolare, nel paradosso che mette in chiaro. Questo, che molti quadri aniconici, visti in una luce curatoriale così innovativa, appaiono non meno debitori nei confronti di un’idea tutta formale di equilibrio compositivo rispetto a quelli – per così dire – classicisti, i quali, per converso, risultano più vibranti di quanto si potesse supporre.
Insomma, una mostra che non è solo una retrospettiva antologica. Ma una di quelle occasioni, comunque arricchenti, in cui approcci critici più liberi e meno statici osano andare oltre un’idea troppo schematicamente evolutiva della storia dell’arte.
Nota a margine. Le didascalie dei lavori in mostra non recano l’indicazione della tecnica realizzativa. Può risultare provocatorio, ma anche questo è un invito a guardare l’opera d’arte in modalità out of joint.
Pericle Guaglianone
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