L’arte vertiginosa di Roberto Ciaccio in mostra a Milano
È una tecnica minuziosa e lenta quella usata da Roberto Ciaccio per realizzare le sue opere: lastre di zinco, ferro e rame diventano il supporto di processi che si sviluppano nel tempo. Questi e altri lavori sono in mostra alla galleria Building
Il curatore Francesco Tedeschi l’ha concepita come un’ascensione che, lungo i due piani di scale della galleria Building a Milano, comporta l’alleggerimento dei supporti e lo schiarimento dei colori. Si parte dal piano terra dove, sin da subito, il visitatore è costretto a confrontarsi con la cifra di Roberto Ciaccio (Roma, 1951 – Milano, 2014), fatta di pesanti lastre in zinco, ferro, rame, nate nella stamperia dell’amico Giorgio Upiglio, della tecnica a stampa e dell’uso concettuale del colore, o piuttosto del non colore, vista la massiccia dominanza di bianco e nero, e delle ombre.
In mostra le serie in cui l’artista registra e modula i cambiamenti, seppur sottili, “agiti” sulle cose nel mondo, come Monet fece con la cattedrale di Rouen. Una progressione che rivela un’ansia documentaristica propria solo del cinema e della fotografia.
LE OPERE DI ROBERTO CIACCIO
La produzione di Ciaccio è infatti percorsa da una riflessione vertiginosa, che guarda ad alcuni dei più grandi filosofi del Novecento (Heidegger, Benjamin, Derrida) in compagnia dei quali si interroga sui concetti di tempo, di ripetibilità, di limite, soglia. Prendiamo come esempio proprio le serie, scansioni temporali, ordinate e sequenziali, formate da più lastre: a margine di ciascuna è annotato un numero, che ne determina il collocamento all’interno di una rigida progressione. Al tempo stesso, però, ogni lastra è autonoma, di per sé significante e irripetibile: nonostante la derivazione da un unico modello (matrice), ciascuna differisce per le singole coordinate di nascita, per le caratteristiche del supporto, della luce, del colore.
LA TECNICA E IL COLORE SECONDO CIACCIO
La stampa permette anche a Ciaccio di operare nella distanza dall’opera d’arte: non è rilevante il gesto artistico, l’artista è altrove rispetto all’opera che si verifica, un evento pittorico che accade tra i tanti altri nell’economia delle cose del mondo. Sui freddi materiali, ferro, zinco, rame, si depositano così immagini-fantasma, ombre e accenni di figure.
La lastra nella produzione dell’artista è così importante perché reca in sé le tracce di chi è passato, la sua agency, rivelata dalla mano di Upiglio, da un dito di Ciaccio stesso, da un errore o un segno di troppo. La lastra è luogo vivo, di stratificazioni temporali. Si ha la sensazione di essere in presenza di qualcosa che sfugge: si sta sulla soglia dell’opera, si entra nelle sue intercapedini. La produzione di Ciaccio è come un registratore lasciato sulla finestra del suo studio: riprende l’effetto di vent’anni sulle cose.
LA MOSTRA DI CIACCIO DA BUILDING A MILANO
All’ultimo piano irrompe infine il sacro. La sala è dominata dalla la semplice geometria della croce, resa nei colori più chiari della sua intera produzione. Ed è proprio l’impiego del colore a impressionare nell’arte di Ciaccio. In particolare l’uso di un nero denso, come è raro trovarne esempi nella storia dell’arte, fortemente condizionato dal materiale impiegato, la carta, che assorbe e scarica il colore. Il risultato è comunque un nero assoluto, una voragine che tutto inghiotte.
L’interazione con il luogo della mostra è determinante. I luminosissimi interni della galleria condizionano fortemente l’esposizione delle singole opere, la cui natura sembra richiamare atmosfere più chiaroscurate. Ciononostante, è apprezzabile la scelta di non apporre il vetro protettivo, esaltando così la resa dei colori e della carta del supporto.
Silvia Zanni
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