Un’anti-mostra in una chiesa sconsacrata di Napoli
Per tutto ciò che è incluso in una mostra, c’è sempre qualcosa che resta indietro e non viene mostrato. Riflettono su questo gli artisti riuniti negli spazi di Flip a Napoli
An Apartment Named Desire, a cura di Federico del Vecchio, sfonda il non detto su un presupposto basilare quanto taciuto, quasi con ritrosia, del fare arte: creazione è rinuncia, e dalla privazione nasce la creazione. Lo fa proponendo un’idea trasformativa e consapevole del processo di produzione-fruizione, inusuale e non timorosa dei paradossi alla Tennessee Williams evocati dal titolo, come del resto nel mood autogestito e innovativo del progetto più ampio in cui si inscrive: l’attività ultradecennale della piattaforma Flip, spazio itinerante di connessione tra artisti che si colloca di volta in volta in luoghi diversi, e che da circa un anno ha preso azione in una cappella sconsacrata nel ventre antico di Napoli, completamente rivalorizzata e ristrutturata per l’occasione.
LA MOSTRA NEGLI SPAZI DI FLIP A NAPOLI
La verità dunque espressa da questa mostra degli studenti di Frances Scholz della HBK (Università delle Arti di Braunschweig, Germania), con una performance della stessa Scholz e un reading di Mark von Schlegell, è che per ogni mostra e opera prodotta, e che si sceglie di esporre, esistono una o molteplici altre anti-opere e anti-mostre che non si vedono: ipotesi che sono state lasciate indietro e non scelte nella presentazione comunicativa finale, idee abbandonate a favore di quelle più presenti emozionalmente o cognitivamente. Con il prefisso “anti-” usato in senso non oppositivo, ma di alterità, insieme a tutto il potenziale che ne deriva.
Ed ecco che in mostra, nella chiesa rifunzionalizzata di Flip, ci sono opere realizzate durante una residenza partenopea di studenti d’arte. E con le mura sapide di tempo e il fascino del luogo esse dialogano senza riserve, penetrando nelle sue crepe ed esprimendone la concretezza con formalizzazioni più materiche, oppure insediandosi nella sua atmosfera evocativa con lavori di rappresentazione pittorica o disegnativa, o ancora restituendo, sotto forma di reperti-feticci, oggetti di recupero o eventi vissuti durante la residenza. Il tutto abbracciato dalle performance e reading neo-surreali di Frances Scholz e Mark von Schlegell.
UN’ANTI-MOSTRA A NAPOLI
Ma si tratta di opere concepite parallelamente ad altre, che gli stessi allievi hanno scelto di esporre solo nell’intimità degli appartamenti in cui hanno soggiornato, un’anti-mostra evocata cripticamente nel comunicato stampa e immagine dell’invito: una mostra patente, per una latente. Un processo metalinguistico di scelta tra intimità e condivisione con il fruitore, di nascondimento e disvelamento successivo della presenza di opere, che è processo formativo e artistico in sé e che fa il paio con le operazioni concettuali di Fred Forest, il quale a Documenta nel 1987 nasconde un’opera fatta come rettangolo aureo di ultrasuoni, per poi rivelarne l’esistenza il giorno successivo, sui quotidiani, a folle di visitatori ignari di averla attraversata.
Diana Gianquitto
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