I dipinti e le sculture di Enrico Minguzzi in mostra a Bagnacavallo
Coralli, rovi, muffe, pittura. C’è tutto questo e molto di più nella mostra di Enrico Minguzzi al Museo delle Cappuccine di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna
A un primo sguardo verrebbe da chiamarle nature morte. Ramificazioni intrecciate, esplosioni cromatiche all’apparenza floreali, che dal vaso si dipanano stagliandosi in primo piano davanti a uno sfondo indefinito. Un tranello che Enrico Minguzzi (Cotignola, 1981) si diverte ad architettare con devota attenzione al dettaglio e una precisione pittorica, per così dire, fiamminga. Ma di “morto”, a ben vedere, c’è ben poco nell’ultimo ciclo di opere scelte per la mostra al Museo delle Cappuccine, negli spazi dell’ex Convento di San Francesco, a Bagnacavallo. Così come nessuna di quelle composizioni che sembrano presentare rovi, muffe, fumi e coralli trova una propria collocazione nella natura che conosciamo. È l’inganno offerto da La piena dell’occhio, espressione che, oltre a dare il titolo alla mostra curata da Saverio Verini, spiega anche il passo che sta a monte del processo creativo.
LO STILE DI ENRICO MINGUZZI
Chi ha avuto modo di apprezzare le prime produzioni artistiche di Minguzzi, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna e stabilitosi proprio a Bagnacavallo, ne ricorderà certo i paesaggi, vedute sconfinate spesso contaminate da innesti geometrici fluorescenti. È come se di quei panorami l’artista avesse conservato il ricordo visivo di piccole cose marginali, pezzi di sterpaglia, muschio, corteccia o roccia che sia, e ora le stia riportando nei suoi dipinti miscelandole tra loro secondo una logica aliena, pulsante, viva, talvolta lasciandole arrampicare su un’alzatina o avvolgere una bolla trasparente, o ancora, ribollire su un parallelepipedo ligneo dal richiamo rinascimentale. Dialogano con ornamenti che donano alle composizioni una dignità dal sapore antico, così come con la luce che talvolta taglia in diagonale l’immagine, riferimento esplicito ai Bari di Caravaggio. A loro volta paiono anche godere di una luminosità propria, data dalla fluorescenza che emerge dal fondo della tela a forza di rimozioni di colore a olio attraverso graffi che ricordano, per sottrazione, i sottilissimi tocchi di pennello di Van Eyck; sul pigmento fresco agiscono altrimenti i solventi, donando tridimensionalità, movimento, vitalità.
LA MOSTRA DI MINGUZZI A BAGNACAVALLO
C’è un’idealizzazione della forma. Non a caso opere come Fior d’uovo, Dark egg o Drusa estremizzano un equilibrio compositivo spesso racchiuso nell’ovale, oppure ricercano la perfezione di minerali misteriosi, esposte in sequenza quasi ‒ è l’idea curatoriale ‒ a mostrare nuove scoperte in un museo di scienze naturali.
Sentiva Minguzzi la necessità di dare una risposta tridimensionale a questi lavori. Sono così nate le sculture. Da piccole formazioni dall’aspetto calcareo a ciclopiche masse voluminose che sfidano la gravità, dialogando con le pareti scrostate dell’antico convento. Così come i dipinti, anch’esse giocano in un cortocircuito tra forma, significato e rappresentazione in cui quel che è, vale a dire cumuli di poliuretano o resina epossidica, collassa in ciò che sembra: una formazione corallina, una colonna di fumo solidificata, “Una spugna, una spugna, una spugna”, come il titolo dell’opera in apertura, la cui texture modellata a mano e rifinita con forbicine da unghie tradisce ancora una volta lo sguardo, ricreando una specie polimorfica che prima esisteva solo nei paesaggi della mente dell’artista, e che ora si può toccare con mano.
Federico Spadoni
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