Se la musica incontra la storia. Fatma Bucak in mostra a Torino
Sceglie il pentagramma come strumento per parlare di perdita e dei drammi del presente Fatma Bucak, in mostra da Peola Simondi a Torino
Entrare in contatto con le opere di Fatma Bucak (Iskenderun, 1984; vive tra Londra e Istanbul) è come vedere riaffiorare la storia di civiltà sepolte dal nocciolo spaccato della contemporaneità. Le sue narrazioni, sospese tra mitologia e storiografia, materializzano in uno spazio idealizzato allegorie di pensieri, azioni e contesti geopolitici d’urgenza descrittiva. Ecco perché la contraddizione del titolo della mostra alla galleria Peola Simondi, In prestissimo, è soltanto apparente: da una parte, il significante è realizzato con tecniche e media che impongono una seriale lentezza, sequenziale rispetto ai tempi di decadimento e rinascita della natura; dall’altra, il significato viene trasmesso con impellenza, ex abrupto se l’osservatore non conosce le premesse di tale premura.
LA MOSTRA DI FATMA BUCAK A TORINO
La notazione musicale ben si addice a ogni opera esposta, che con le altre visualizza una cronica – nell’accezione antica, ovvero riportando fatti rilevanti e secondari con eguale precisione e gravità cronologica – di svariate esperienze, armonizzando il vissuto individuale con quello collettivo: l’inquadratura dal movimento fioco, infinitesimale, di Man is dead, in cui l’elemento magico-rituale della colonna sorregge un pesce schiacciato da una pietra, simbolo di sacrificio, di supplizio e di incombenza bellica e ambientale; i lievi e screziati sassi modellati per Perpetual lure and insistent fear, espressione frammentata del declino prima umano e poi naturale – il conflitto tra Israele, Libano e Siria puntualizzato sulle alture del Golan, dove la militarizzazione dell’area sta causando l’estinzione dell’Iris Hermona; le sculture di stampo assiro e sumero di Sum of the misdeeds and consents and cowardly acts, rivisitazione di reperti iracheni appartenuti alla collezione del Museo nazionale di Baghdad e dispersi dopo il saccheggio dell’aprile del 2003, rappresentazione di vulnerabilità e di precarietà (di specie animali minacciate come di centri di aggregazione sociale assediati). Il pentagramma si potrebbe leggere perciò quale un’acuta varietà di realizzazioni della poetica della perdita – continue e inedite reinvenzioni che hanno concesso a Bucak il dialogo con importanti istituzioni tra cui l’Italian Council – con l’intenzione di risarcire forme di vita, materie e suoni che rischiano di essere obliterati con la censura o che già sono stati perduti a causa della distruzione dei cimeli e degli ecosistemi, rifondendoli in opere immersive.
IL FUOCO E LA MUSICA SECONDO FATMA BUCAK
Centrale appare allora il tema del fuoco, come nelle ceneri fragili della carta di Black Ink e nell’installazione They burned it all, simbolo di annichilimento, deflagrazione e disordine, ma anche iato necessario alla purificazione e alla riscrittura della propria identità culturale. In particolare, in uno dei due video di They burned it all, sul palcoscenico di un teatro di Istanbul cinque coppie di musiciste restano in procinto di proferire il loro canto, ammutolite; ripetuta fuori campo, risuona la frase “Hertişt şewitandin” (“Hanno bruciato tutto” in curdo), lamento che richiama leggende di assedi e reali devastazioni subite dalla patria dell’artista. Una linea melodiosa e incompiuta per rileggere la storia politica e ambientale, personale e universale, in testimonianze artistiche sempre vive.
Federica Maria Giallombardo
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