Artista-manager, un mito dannoso
Siamo proprio sicuri che la cultura manageriale sappia rapportarsi alle dinamiche dell’arte? E che il controllo sia l’unica soluzione?
“Le immagini si dividono in due grandi gruppi opposti: il primo gruppo deriva dall’essere circondati dagli eventi e l’altro gruppo dal circondarli. Questo «essere dentro a una cosa» e «guardare una cosa dal di fuori»; la «sensazione concava» e la «sensazione convessa»; l’«essere spaziale» e l’«essere oggettivo»; la «penetrazione» e la «contemplazione» si ripetono in tante altre antitesi dell’esperienza e in tante loro immagini linguistiche, che è lecito supporre all’origine un’antichissima forma dualistica dell’esperienza umana” (Robert Musil, L’uomo senza qualità [1930-1943], cit. in esergo a Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Rapporto sulle arti negli anni Sessanta, in Rapporto 60, Bulzoni Editore, Roma 1966, p. 9).
Mercato e ricerca/sperimentazione indipendente sono in questo momento storico, e ormai da alcuni anni, non solo alternativi l’uno rispetto all’altra, ma sono proprio inconciliabili, incomparabili, incommensurabili. Costituiscono due territori separati, che non comunicano tra di loro nemmeno per sbaglio. Il “mercato” attuale – e già la definizione è imprecisa e fuorviante, dal momento che il mercato di oggi nella sua fascia alta corrisponde molto più alla speculazione finanziaria che, per esempio, al mercato artistico così come era concepito e praticato tra Anni Cinquanta e Settanta – è riuscito nell’impresa apparentemente impossibile di rendere il cosiddetto ‘sistema dell’arte contemporanea’ l’ambiente in assoluto più ostile (essendo regolato da un impianto valoriale oligarchico e gerarchico) all’innovazione radicale in campo artistico e culturale.
Dopo anni di arte di consumo, di ‘prodotti’ a volte spacciati per ‘processi’ e di ‘processi’ costretti a forza a diventare ‘prodotti’ (snaturandosi inevitabilmente nel percorso: e, di fatto, buttandosi via), possiamo adesso intravedere delle luci, dei bagliori – di differenza, di diversità, di alterità. Allo stesso tempo, la figura mitologica dell’artista-manager appare finalmente per quello che è e che è sempre stata: un mito appunto, un’illusione, e una contraddizione in termini.
Siamo sospesi tra i due stati dell’arte dissociati:
A. L’arte-spettacolo, l’arte oggetto/prodotto, l’arte-consumo, l’arte-prestazione, l’arte-efficienza, l’arte-risultato, l’arte-gratificazione, l’arte profitto;
B. L’arte-ricerca, l’arte-esperimento, l’arte-dolore, l’arte-incertezza, l’arte-dubbio, l’arte-trauma, l’arte-deviazione, l’arte-altro.
E inoltre (sempre B): l’arte-condivisione, l’arte-comunità, l’arte-esistenza, l’arte-quotidianità, l’arte-rivoluzione, l’arte-trasformazione, l’arte-cambiamento, l’arte-evoluzione.
In questi anni si è chiesto all’arte di assolvere compiti e rispondere a esigenze che non sono i suoi, ma che sono completamente estranei a essa: intrattenimento, risultati, risposte concrete, sicurezze, leggerezza, evasione, divertimento (l’arte come giostra e come luna-park che abbiamo visto tante volte nei musei italiani e stranieri).
Output / produzione / successo / progetto / oggetto
VS.
Processo / ricerca / proliferazione / fallimento / digressione
ARTE, CONTROLLO, MANAGEMENT
Diventa difficile irreggimentare il non irreggimentabile. L’incontrollabile. Il controllo è sempre al centro di ogni riflessione sensata sul presente, a ogni livello (culturale, artistico, economico, sociale, politico).
Gestione (management): come si gestisce l’ingestibile (= l’arte / l’altro / l’altrove)? È necessario gestibile? Una cultura manageriale è davvero quella più adatta a relazionarsi con una pratica come l’arte? E non ne avrà forse generato, nel frattempo (quattro decenni) e a proprio uso e consumo (come si dice), una versione mostruosa, distorta, sbagliata, simulacrale? ((E questa versione non sarà, magari, proprio A?))
Come scriveva anni fa Mark Fisher, il capitale come potere e come controllo (la cultura cioè del profitto e del risultato immediato, del profitto come risultato immediato) ha colonizzato il territorio che era il meno adatto a essere “gestito” in questi termini e secondo questi criteri. I quali criteri influenzano – occorre ricordarlo sempre – non solo il modo in cui l’opera viene percepita e recepita, ma anche e soprattutto, da un certo punto in poi, il modo e i modi in cui essa viene immaginata, concepita, realizzata, proposta, promossa.
L’opera si è così gradualmente adeguata a un tipo di logica che contraddice pesantemente le sue stesse premesse. È stata cioè inserita in una cornice, all’interno di un codice che è, ancora una volta, incomparabile a essa e con essa.
“Questi pittori cercano un’arte che, come quella dei «novissimi», sia fedele al mondo oggettivo e intanto pronta a registrare quanto avviene «dentro»: dalla cronaca si va alla confessione, dalla ricognizione all’ironia. Si vuole in certo modo rinnovare la visione del mondo, strutturare una mitologia che non sia soltanto personale ed egoistica. Il rapporto col mondo non è diretto ma c’è la mediazione dei mass-media (…); anche l’approccio al quadro avviene attraverso tecniche indirette (la proiezione, l’inserto, il ricalco). I nuovi strumenti dei pittori USA sono appunto strumenti: sta all’artista accettarli criticamente, evitare che diventino rapidamente il «fine» della propria espressione. Rinnovata è l’idea di spazio: irreale, sognante, ultrasonico. Un fanta-spazio che non sta allo spazio tradizionale come la fantascienza sta alla scienza, ma propone una alternativa possibile, una serie di metamorfosi” (ivi, p. 21).
Christian Caliandro
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