A Roma le video-opere degli artisti israeliani per il Giorno della Memoria
In prossimità del Giorno della Memoria della Shoah, sei musei capitolini accolgono le opere di artisti israeliani contemporanei, presentate in forma di videoinstallazione per attivare una riflessione sull’importanza di ricordare
Nell’introdurre il suo progetto, Giorgia Calò, curatrice della mostra ZAKHOR/RICORDA in scena in sei dei musei civici di Roma, evoca l’ossessione dell’obbligo di ricordare che contraddistingue l’epoca contemporanea. Non certo per stigmatizzare questa propensione, e anzi per porre l’accento sulla necessità di avere memoria degli avvenimenti della nostra storia collettiva. Come la tragedia della Shoah, milioni di morti celebrati ogni anno in occasione della Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Ma una giornata non è sufficiente, tanto più se ridotta alla dimensione istituzionale, per preservare il ricordo di ciò che è stato, misurarne gli effetti e trasmettere un monito a chi verrà.
COME SI CONSERVA LA MEMORIA?
È chiaro, in tal senso, l’appello dell’Assessore alla Cultura di Roma Miguel Gotor: “Oggi, anche per ragioni biologiche, siamo in una fase in cui la memoria della Shoah fatica a reggersi solo sulle gambe degli ultimi sopravvissuti. Serve dunque un cambio di passo”. A questo scopo Roma promuove l’iniziativa Memoria genera futuro, programma di eventi, mostre, spettacoli, appuntamenti specialmente orientati ai giovani. La mostra Zakhor – “accolta con entusiasmo per la semplicità, e dunque l’efficacia, del messaggio che vuole trasmettere”, spiega ancora Gotor – ne fa parte, coinvolgendo i musei civici per indagare la memoria attraverso l’arte contemporanea.
ZAKHOR. LA MOSTRA AI MUSEI CIVICI DI ROMA
Zakhor, che in ebraico significa “ricorda”, è “un imperativo categorico che attraversa l’intera tradizione ebraica, comparendo nella Torah ben 222 volte nelle sue varie declinazioni”, spiega ancora Giorgia Calò. E peculiare è la modalità curatoriale che ha improntato l’identità della mostra: volutamente, infatti, si è scelto di presentare al pubblico sei opere – una per ogni museo coinvolto – solo attraverso una rappresentazione video delle stesse (formula intelligente e “furba” anche sul piano organizzativo, ci sentiamo di rilevare). Sei lavori di artisti israeliani di seconda generazione, realizzati in passato per altre situazioni e musei, perché la decontestualizzazione rispetto al luogo che le ospita diventi essa stessa motivo di riflessione (“questa mostra vuole essere un’incursione nel percorso museale canonico: il pubblico dev’essere quasi inconsapevole” spiega la curatrice “come si trattasse di una ‘pietra d’inciampo video’”), proprio come il confronto con il video che fa da cassa di risonanza delle opere, alludendo alla fragilità della creatività, che i momenti della storia più bui – Shoah in primis – hanno negato spezzando la vita, e dunque la trasmissione della cultura. “Il mezzo video diventa un messaggio: la fugacità dell’opera, presentata in questa forma mediata, ci invita a pensare che non sarebbe esistita se i genitori dell’artista non si fossero salvati. Quanta cultura abbiamo perso? Non lo sapremo mai ed è giusto avere memoria anche di quel vuoto”, chiosa Calò.
GLI ARTISTI E I MUSEI
I musei della città coinvolti, in realtà, sono stati associati a una tra le opere selezionate per consonanza culturale e identitaria. Così, per esempio, al Museo dell’Ara Pacis, apprezzando la teoria di ritratti della famiglia di Augusto, ci si imbatte nell’immagine guida della mostra, la foto Three Sisters (presentata ovviamente in video) realizzata da Vardi Kahana (Tel Aviv, 1959) nel 1992, parte del ciclo One Family: uno scatto in bianco e nero in cui l’artista immortala l’immagine della madre, Rivka Kahana, con le sue due sorelle Leah ed Esther. I numeri consecutivi marchiati a fuoco sugli avambracci rivelano l’ordine con cui furono tatuate ad Auschwitz nel 1944. Tra gli altri musei coinvolti – Centrale Montemartini (Boaz Arad, The Nazi Hunters Room), Museo di Roma (Dani Karavan, Man walking on railways), Museo di Roma in Trastevere (Simcha Shirman, Whose Spoon Is It?), Galleria d’Arte Moderna (Micha Ullman, Seconda Casa. Gerusalemme – Roma, l’unica realmente presente in città, in piazza di Monte Savello, dov’è stata inaugurata nel 2004) – anche il Museo di scultura antica Giovanni Barracco (che accoglie l’opera di Maya Zack, Counterlight), ricordo nel ricordo di Ludwig Pollak, straordinario uomo di cultura e archeologo ceco di origine ebraica, che fu illuminato direttore del museo e finì i suoi giorni in un campo di concentramento. Nel 2023 ricorre l’ottantesimo anniversario della sua deportazione, prelevato nella sua abitazione di Palazzo Odescalchi nell’ottobre del ’43. Ogni opera è introdotta da un pannello che riassume il senso del progetto e da un QrCode che dà accesso alla mappa dei luoghi coinvolti.
Livia Montagnoli
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