Acqua, fuoco, materia. Vetro e fotografia alla Fondazione Wilmotte di Venezia
Parlare di vetro a Venezia sembra una scelta scontata, ma questa mostra va al cuore della pratica artigiana lagunare per eccellenza. Combinando il punto di vista di un grande architetto, dei mastri vetrai e di un fotografo appassionato
Se le città sono fatte della materia che le compone, Venezia lega da sempre la sua identità all’elemento acquatico, spina dorsale di un ecosistema e di una geografia basati su equilibri alchemici. Gli stessi che scandiscono i processi di lavorazione del vetro, dove è l’acqua, bilanciata dal fuoco, a giocare ancora una volta un ruolo essenziale.
ACQUA E FUOCO ALLA FONDAZIONE WILMOTTE
E sono proprio l’aqua e il fogo a contendersi il titolo della mostra da poco inaugurata alla Fondazione Wilmotte, avamposto lagunare dell’architetto da cui prende il nome, che nel 2012 ha regalato un nuovo volto all’ex cantiere navale poi divenuto falegnameria e infine scuola professionale nel cuore del sestiere Cannaregio, in cui oggi hanno trovato dimora anche le fondazioni di Anish Kapoor e Nicolas Berggruen. Negli ambienti rilanciati da Jean-Michel Wilmotte va ora in scena un dialogo a tre voci, innescato dalla volontà dell’architetto francese di dare nuovamente spazio a Venezia e alla materia che ne struttura il mosaico identitario, messo a dura prova dagli effetti dell’overtourism e da uno spopolamento che riguarda anche le maestranze artigiane. Pensati da Wilmotte, i manufatti in vetro che scandiscono le sale espositive riavvolgono il nastro di una storia antica, radicata nelle fornaci di Murano, decimate dal peso della crisi economica e, più di recente, dalle conseguenze della pandemia.
LA MOSTRA VENEZIANA ALLA FONDAZIONE WILMOTTE
Frutto della collaborazione con le realtà muranesi ancora attive – come la fornace Cenedese ‒, gli oggetti in mostra scardinano la retorica dei tempi andati e mettono in risalto l’appartenenza al presente di una tecnica che non smette di essere contemporanea. I ricordi d’infanzia di Wilmotte – alcuni manufatti evocano le forme degli alambicchi nel laboratorio paterno – si concretizzano nel blu e nella trasparenza di oggetti davvero unici. La terza “voce” coinvolta nel dialogo è quella del fotografo Luigi “Gigi” Ferrigno, autore dei quattordici scatti in bianco e nero che quasi vigilano sulle opere in vetro. Realizzate negli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso in alcune fabbriche di vetro muranesi, le fotografie di Ferrigno immortalano gesti e tecniche, abbracci tra acqua e fuoco, entusiasmi e fiducia nel futuro – era l’epoca del boom economico. Oggi lo scenario è cambiato, ma la speranza è che fondazioni come quella di Wilmotte possano diventare hub progettuali che contribuiscano a sostenere linguaggi, discipline, saperi artigiani di una città viva, nonostante tutto. Come la sua materia.
Arianna Testino
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