Perché l’arte fighetta ha paura della ribellione?
Gli artisti fighetti amano lo status quo e detestano tutto quello che se ne allontana, come l’imprevisto e, appunto, la ribellione. Proseguono le riflessioni di Christian Caliandro sull’arte fighetta e chi la crea
“In termini di volontà, si è verificato un enorme arretramento a partire dal punk degli anni Settanta. La disponibilità dei mezzi di produzione è sembrata andare di pari passo con una speculare riasserzione del potere spettacolare” (Mark Fisher, Perché k?, “k-punk”, 16 aprile 2005, pubbl. in Scegli le tue armi. Scritti sulla musica / k-punk 3, minimum fax, Roma 2021, p. 25).
29 dicembre 2022. Il/la fighetto/a (e quindi anche l’artista fighetto) rimuove completamente l’altro e il contesto – in effetti, rimuove anche l’Altro. Non è interessato a nulla che non faccia già parte, appunto, dei propri interessi contingenti e della propria condizione.
Così come non è affatto interessato a distinguersi, a brillare, a innalzarsi: è invece animato da quello che Francesco Piccolo qualche anno fa chiamava “il desiderio di essere come tutti” (ma, attenzione: come tutti i fighetti, è ovvio…). Non lo sfiora minimamente l’idea di potere essere un “ribelle” di qualunque tipo – anzi, il solo pensiero gli fa praticamente orrore. Perché il ribelle, diciamolo, oggi è un povero sfigato (e non c’è nulla che terrorizzi maggiormente il fighetto della prospettiva di diventare uno “sfigato”, cioè di ricadere improvvisamente nel territorio che è specularmente opposto al suo, che è cioè il suo “negativo assoluto”, in cui regnano regole sconosciute e che non vanno conosciute; per l’artista fighetto questo terrore panico è ulteriormente aggravato dal fatto che l’esclusione insita nell’appartenenza al territorio negativo della sfigataggine si fa esclusione letterale e potenzialmente perenne dal giro invece ‘figo’ dell’arte, dovunque questo giro figo si trovi a girare).
“Un fighetto non si sporca le mani. Mai”
ARTE FIGHETTA E ARTE RIBELLE
Così, il fighetto farà di tutto per rimanere intruppato, per non pensare mai nulla di autenticamente controverso (neanche per sbaglio, nemmeno in un momento di distrazione e non-sorveglianza) e comunque per non manifestare mai mai mai un qualunque pensiero personale, una qualunque idea che non sia prima passata al vaglio delle personali Autorità di Controllo (e dove stanno? Chi sono? e, naturalmente, chi controlla le Autorità di Controllo, soprattutto oggi, in questo casino generalizzato che è il presente? Mah…).
Business is business, la fighetteria è la fighetteria, e la fighetteria non ammette deviazioni né digressioni: le considera imperdonabili eccentricità, segni di debolezza (e sì, l’indicatore più sicuro che, in fondo, sei proprio un povero sfigato).
Il fighetto – e quindi l’artista fighetto – ha la propria carriera a cui badare e da salvaguardare (ma, esattamente: quale carriera?), carriera che – per quanto fumosa e ineffabile ‒ non può essere messa in pericolo da pensate estemporanee e idealismi vari. Un conto sono infatti gli statement, le dichiarazioni a favore dei diritti e dell’ambiente (non costano nulla, e poi: chi non sarebbe d’accordo?); un conto del tutto diverso è “lottare” – le famose “mazzate” culturali e intellettuali di cui parlava Bertram Niessen – che, ancora (occorre dirlo?) dal punto di vista fighetto sono roba da sfigati.
Un fighetto non si sporca le mani. Mai.
LA DISTINZIONE TRA OPERA E VITA
30 dicembre 2022. “In Ubik la forza del tempo che si muove in avanti (o forza-tempo, espressa come un campo ergico) è cessata. Da questo risultato tutti i cambiamenti. Le forme regrediscono. Il substrato viene rivelato. Il raffreddamento (entropia) è libero di mettersi all’opera indisturbato. L’equilibrio è turbato dalla scomparsa del campo di forza del tempo che si muove in avanti. Viene rivelato, per così dire, il mondo nudo e crudo, il nostro mondo” (Philip K. Dick, 1974-1976. Raccoglitore 4 [4:1], ne L’Esegesi, a cura di Pamela Jackson e Jonathan Lethem, Fanucci Editore, Roma 2015, p. 35).
Il collasso del tempo, il tempo che da un certo punto in poi – gli Anni Settanta – va indietro invece che avanti (Dick, L’Esegesi) è una delle chiavi per comprendere i processi culturali dell’ultimo cinquantennio, la loro struttura e il loro (mal)funzionamento.
Questa particolare dimensione temporale – una volta che essa viene interpretata correttamente, e attraversata ‒ è la caratteristica principale per esempio dell’arte ‘sfrangiata’, cioè non-fighetta: un’arte che non tiene conto del tempo lineare, che inverte le direzioni e le dilata, che fa percolare i tempi (passato-presente-futuro; futuro-passato-presente; presente-passato-futuro; ecc. ecc.), l’uno nell’altro, rendendoli in ultima analisi indistinguibili l’uno dall’altro – e, cosa più importante di tutte, rendendo superflua la distinzione stessa.
L’operazione della distinzione.
L’indistinzione dunque non è solo tra opera e vita/realtà, tra figura e sfondo, tra soggetto e oggetto, tra protagonista e contesto, tra autore e spettatore – ma proprio tra tempo principale e tempi secondari. Sempre, dunque, ciò che a prima vista (e da un altro punto di vista, cioè da un altro sistema di valori e di valutazione) appare marginale, non lo è.
Questo aspetto, in fondo, differenzia l’arte nuova rispetto a quella che è ancora presente, fisicamente presente, materialmente presente (cioè, gli oggetti che essa produce appartengono materialmente a questo tempo), ma passata, vecchia, perché appartiene a schemi e valori andati, ormai inservibili.
“A un certo punto, in una fase che diventa percepibile soltanto a posteriori, le culture imboccano un binario morto, cessano di rinnovarsi, si ossificano nella Tradizione. Non scompaiono davvero, ma diventano morti viventi che sopravvivono grazie all’antica energia (…) La poesia lirica, il romanzo, l’opera, il jazz hanno fatto tutti il loro tempo: non è vero che queste culture muoiono, perché in realtà sopravvivono, ma con una volontà di potenza ridotta, prive ormai della capacità di contrassegnare un’epoca. Non più decisive o esistenziali, assumono una dimensione storica ed estetica: invece che modi di vivere, diventano scelte stilistiche” (Mark Fisher, op. cit., p. 117).
Christian Caliandro
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