Studio visit. Intervista a Giuliana Rosso
La sua ricerca si muove tra pittura e disegno e indaga una condizione umana di inquietudine costante, ispirandosi all’infanzia e all’adolescenza. Con il suo lavoro vuole mettere in luce una costellazione di sensazioni e stati d’animo meno visibili. Lei è Giuliana Rosso e l’abbiamo intervistata
Ci si può avvicinare alla pratica artistica di Giuliana Rosso (Chivasso, 1992) passando per un doppio ingresso. Sogno da una parte e tormento dall’altra: sono le insegne che campeggiano sopra queste porte immaginarie. Ma, una volta varcata una delle due soglie, ci accorgerebbe di una strana convergenza. I due ingressi finiscono infatti per comunicare in un unico corridoio: un imbuto che porta dritti a un mondo popolato da figure oscure e vitali, un microcosmo incantato e insieme infestato, cupo e sfavillante. I protagonisti delle opere di Giuliana Rosso sono quasi sempre ragazzini, colti in quella strana terra di mezzo tra infanzia e adolescenza: un limbo che rende i soggetti sfuggenti, difficili da inquadrare, teneri e inquietanti. D’altra parte si tratta per definizione di un momento di passaggio fatto di scoperte e traumi, desideri e inquietudini; stati d’animo ai quali Rosso dà forma attraverso dipinti dal carattere fortemente narrativo – in cui la matrice espressionista si contamina con uno stile dal tratto “cartoonesco” – che spesso si espande sulle tre dimensioni. Mi piace pensare alle opere dell’artista come a delle fiabe nere.
Ho avuto modo di seguire il tuo lavoro nell’arco degli ultimi anni e non posso fare a meno di notare la tua ossessione per figure colte in quella fase di passaggio che è la pubertà. Da dove deriva quest’attrazione irriducibile?
Può essere che derivi dalle fiabe come dici, o magari da un loro sequel immaginario – in effetti le fiabe generalmente hanno protagonisti più vicini all’infanzia o all’adolescenza. Mi interessa anche un discorso sui periodi di vita non vissuti o sulle sensazioni fuori luogo. Le persone adolescenti sono l’emblema simbolico dell’indefinitezza: è il momento in cui ci si confronta con un certo tipo di percezione, che è quella di un tempo e di un pensiero che sembrano non avere un limite preciso. Lo spazio dell’adolescente è complesso e impenetrabile e irrompe verso l’esterno o implode in sé (anche se non per forza solo in quella fase biologica della vita). Riguarda anche il rapporto tra impermeabilità e dissociazione nell’affrontare il momento di difficoltà o, al contrario, la capacità senza filtri di essere in relazione con il presente e la vita e l’empatia in modo più autentico.
È senz’altro come dici: l’infanzia e le fasi immediatamente successive sono delicatissime. Alla fanciullezza viene spesso associata la spensieratezza, quasi si trattasse di un’età dell’oro; la verità è che si tratta di un periodo complesso, fatto di scoperte, ma anche di traumi capaci di accompagnare le persone per tutta la loro vita. Mi rendo conto che si tratta di una domanda a cui è difficile rispondere ora, ma credi che quest’attenzione rivolta alla giovinezza ti accompagnerà ancora a lungo?
Direi di sì. A livello iconografico l’adolescenza penso possa lasciare aperti più canali interpretativi, e questo aspetto mi piace molto, mentre la rappresentazione di altre età forse tende a creare discorsi più incentrati su temi specifici. Alla fase dell’adolescenza non attribuisco un’accezione nostalgica (un paradiso o inferno perduti): questa è una componente molto secondaria del mio lavoro. Piuttosto, sono concentrata sulla fragilità e sulla transizione incerta che questa fase della vita porta con sé.
In che senso?
Avvicinarmi all’adolescenza equivale per me a esplorare qualcosa di indefinito e indefinibile, una condizione che riguarda tutta l’umanità. La figura simbolica del teenager mi permette di avere una comunicazione più diretta e profonda con chi guarda, magari “liberandolo” per qualche istante dall’idea di comunicazione funzionale/razionale secondo la parola e il senso compiuto di un’idea o un’azione. È anche un tentativo di indagare l’animo umano in un’accezione più simbolica e potenzialmente condivisa, provando a rendere tattile un’emozione che in genere rimane un’esperienza solitaria, come succede a volte quando si guarda un’opera.
L’ARTE SECONDO GIULIANA ROSSO
La fruizione dell’arte è spesso un’esperienza solitaria: penso anche alla dimensione “virtuale”, spesso basata sullo scorrimento compulsivo di immagini e profili attraverso i social network. Il tuo lavoro, come quello di quasi tutta la generazione di artisti nata dopo il 1990, è emerso negli anni dell’esplosione di Instagram. Credi che in qualche modo questo fatto abbia orientato la tua pratica?
Instagram è sicuramente un luogo virtuale dove trovare una fonte inesauribile di immagini, nuove iconografie ed estetiche. Penso sia davvero bello scorrere immagini e poter scoprire realtà geograficamente lontane e nuove. Forse questi continui cambiamenti di immagini, spesso anche molto diverse tra loro, hanno influenzato il mio modo di guardare, l’idea di trovare connessioni tra elementi diversi e rimandi ha a che vedere con questo tipo di ritmo, in genere velocissimo. Quindi il creare “isole” catalizzatrici – per esempio in alcuni lavori più installativi, come nella mostra Noble Experiment (2022) da spazio Massimo a Milano o nell’installazione al Castello di Rivoli (Finché quel che fantastichiamo è stato, 2020) – è un tipo di pratica che potrebbe far seguito a questo modo di guardare quotidiano che slitta tra un contrasto e l’altro e diverse situazioni che si rimbalzano a vicenda. Ma in generale il web, in tutte le sue ramificazioni, e l’utilizzo di dispositivi tecnologici nel quotidiano, anche al di fuori dei social, contribuiscono a questa dispersione del pensiero, che va verso punti di vista multipli. Mi accorgo che tutto questo ritorna un po’ anche nel mio lavoro.
Torniamo alle tue opere e all’esperienza fisica, a mio avviso irriducibile, che esse presuppongono. Hai un modo peculiare di installare – presentando le opere ad angolo oppure in punti interstiziali –, quasi cercassi di dare un corpo a un supporto tradizionalmente “bidimensionale” come la carta.
Mi interessa indagare il superamento della bidimensionalità e dell’idea di perimetro. Lavoro quindi su processi di sovrapposizioni, sui rapporti dell’opera con lo spazio, sui rimandi tra elementi dello stesso lavoro o tra diversi, anche se realizzati su supporti e con materiali differenti, ma posti nello stesso spazio, in un dialogo che conduca in un certo senso a una sorta di realtà aumentata, realizzata però con un supporto non tecnologico. Pittura, carta, disegno, scultura, oggetti: lascio che evolvano e li seguo verso una dimensione fluida, più emotiva, che spero possa avvicinare anche chi guarda a diverse letture. L’idea di espansione per me ha anche sempre a che fare con l’idea di fragilità, vista secondo un rapporto tra immediatezza e deperibilità. L’angolo e quelli che hai definito “punti interstiziali” rappresentano un po’ una sintesi di tutto questo. L’angolo in particolare, inteso come il luogo dove si incontrano due superfici, è il punto d’origine; a partire da qua la pittura/disegno diventa come un libro che si apre al racconto. La carta la vedo come una “pelle” che si espande dal luogo di origine, si dilata, si fa forma, esce dal supporto e ritorna bidimensionale.
Saverio Verini
https://www.instagram.com/giuliana_rosso/?hl=it
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #69
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