L’efficienza è il nuovo criterio dell’arte contemporanea?
L’efficienza è di sicuro una caratteristica dell’Intelligenza Artificiale, ma chi ha detto che debba essere anche una peculiarità dell’artista e dell’opera?
“Malgrado le teorizzazioni che parlano di superamento delle avanguardie storiche, la postavanguardia ripropone solo una restaurazione del concetto stesso di avanguardia. Sostiene di applicare una rimozione, che produce una riforma, tanto che nel suo procedere fa dell’inattuale rivisitazione della storia una definizione di attualità. (…) La permutabilità dei termini comporta una sfida alla progressione delle tendenze e dei movimenti, quanto un interscambio tra progresso e regresso, rivoluzione e reazione, qualità e quantità. A questo stadio ogni segno si sottrae a critica e si assicura un rango storico, senza farlo perdere all’altro. Si sbriciolano i temi della discussione che condizionavano la ricerca e si adotta un andamento totalizzante, dove la convenzione abbraccia la sperimentazione. Senza eccezione, simile procedere è diventato ragione di lavorare, così da istituire una certa omogeneità che a me sembra distruttiva, poiché neutralizza qualsiasi significato e splendore politico. Il gioco è crudele; si atrofizzano processi, si vanificano i duelli esasperati, si calmano le convulsioni spasmodiche e cade l’eccitazione. Tutti i valori si rendono paragonabili, ma sottilmente subordinati alla loro riproduzione” (Germano Celant, Per un’identità italiana, in Identité italienne, Musée National d’Art Moderne, catalogo della mostra, Centre Georges Pompidou, Parigi 1981, pubbl. anche in Arte dall’Italia, Feltrinelli, Milano 1988 p. 9).
Queste parole sembrano scritte oggi, e invece sono state pensate più di quarant’anni fa. Alla fine – o all’inizio? ‒ del processo di “equiparazione”, “omogeneizzazione”, “frantumazione”, “atrofizzazione” e “neutralizzazione” c’è… il simulacro. È un processo che riguardava e riguarda tuttora l’arte, ma a sua volta è il riflesso di un processo molto più ampio, che riguardava e riguarda l’intera società, la condizione umana e persino ciò che noi identifichiamo e percepiamo come natura umana. L’indagine di questo fenomeno epocale si intreccia con quella dell’androidizzazione in corso nelle nostre società a partire dagli Anni Settanta, dunque nell’ultimo cinquantennio.
GLI ANDROIDI OGGI
Chi – che cosa – era ed è, infatti, l’androide di cui parlava Philip K. Dick tra Anni Sessanta e Settanta.? Ecco qui: “Nell’universo esistono esseri feroci e freddi che ho chiamato ‘macchine’. Il loro comportamento mi spaventa, specialmente quando imita quello umano in maniera così perfetta da procurarmi la spiacevole sensazione che queste creature cerchino di farsi passare per esseri umani, pur non essendolo. Io li chiamo ‘androidi’, e questo è il mio modo di usare tale parola. Quando parlo di ‘androide’ non mi riferisco a un onesto tentativo di creare un uomo in laboratorio, ma a un essere prodotto per ingannarci in maniera crudele, per farci credere di essere uno di noi. (…) Fondamentalmente si tratta di qualcuno a cui non interessa il destino di cui sono vittime i suoi simili; lui resta distaccato, uno spettatore (…) Il più grande cambiamento che sta avendo luogo nel nostro mondo è probabilmente il rapido progresso degli esseri viventi verso la reificazione” (P. K. Dick, Uomo, androide e macchina [1975], ne La ragazza dai capelli scuri, Fanucci Editore, Roma 2014, pp. 199-200).
Non mi dite che, nel corso della vostra esistenza, non avete mai incontrato o conosciuto nessun ‘androide’ nel senso di Dick. Non mi dite che non avvertite, sempre più intensa, questa sensazione di una progressiva plastificazione, reificazione delle persone… Tra l’altro, direi che il mondo dell’arte e della cultura è uno dei luoghi fisici e mentali perfetti per osservare da vicino questa trasformazione (che si avvia peraltro a conclusione, a quanto sembra). A quanto pare, qui la densità di androidi è maggiore che altrove.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PRODUZIONE ARTISTICA
E quindi, come dicevamo l’altra volta, se una quota ampiamente maggioritaria della produzione artistica e culturale è già concepita e realizzata con metodi e strumenti che si avvicinano a quelli dell’AI, è perfettamente normale, scusate, che d’ora in poi l’AI si faccia carico integralmente di quel tipo di opere: di quelle opere cioè, che da decenni – quattro almeno, con maggiore intensità negli ultimi due – sono orientate precisamente in quel senso, che si presentano cioè come meccanizzate, reificate, simulate e simulacrali nella loro stessa ideazione. È il compimento – a suo modo perfetto, efficiente, poetico persino – di quella “permutabilità dei termini” di cui parlava Celant nel 1981; e della “equiparazione”, della “omogeneizzazione”, della “frantumazione”, della “atrofizzazione”, della “neutralizzazione” correlate…
L’efficienza: nel momento stesso in cui si è aperta la strada, in campo artistico e culturale, a questo termine-concetto eminentemente antiartistico, anticulturale, per la presa in carico da parte dell’Intelligenza Artificiale era solo questione di tempo. Niente e nessuno è più efficiente di un’AI, se quello è il punto; ma chi, e quando, ha deciso che quello fosse il punto a proposito dell’opera e del suo autore? Ed efficienza in base a che cosa: al mercato, alla prestazione, alla produzione, all’influenza, al posizionamento…? E in rapporto a chi? E, di nuovo, chi è che decide, chi stabilisce i termini e i limiti di questa efficienza?
Ma soprattutto: come, e quando, è successo che gli artisti abbiano scelto di sottostare a questo criterio palesemente assurdo, fuori fuoco, fuori sesto, e francamente pericoloso? E come è che non si sono accorti, o hanno fatto finta di non accorgersi, dell’incredibile tristezza di tutto ciò?
Christian Caliandro
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