Eugenia Vanni, l’artista che mette in discussione la pittura
Si concentra sul bordo del quadro anziché sul suo centro e si interroga sull’illogicità della pittura Eugenia Vanni. Le abbiamo chiesto di approfondire gli snodi della sua poetica
Pittrice, Eugenia Vanni (Siena, 1980) si è formata all’Accademia di Belle Arti di Firenze e si è successivamente specializzata alla NABA di Milano. Le sue opere sono state esposte in numerose sedi istituzionali in Italia e all’estero, tra le quali: Istituto Italiano di Cultura (New York), MAN (Nuoro), MAC (Lissone), Museo Marino Marini (Firenze), Museo Villa Croce (Genova), Galleria Fuoricampo (Siena), Galleria Fuoricampo Temporary Space (Bruxelles), Museo e biblioteca internazionale della Musica (Bologna), Villa Pacchiani (Santa Croce sull’Arno, Pisa), Complesso museale Santa Maria della Scala (Siena).
È stata visiting artist per il corso di incisione presso l’Académie Royale des Beaux Arts di Bruxelles. È docente di Pittura presso la LABA di Firenze e tutor di Visual Research per il Master in Digital Media Arts e di Multimedia Arts presso l’Istituto Marangoni di Firenze.
È fondatrice con l’artista Francesco Carone del Museo d’Inverno a Siena. Questo dialogo presenta alcuni dei principali temi alla base della poetica di Vanni: l’insufficienza della superficie, il ruolo della messa in scena, la pittura intorno, la centralità del quadro come entità, l’illogicità della pittura.
Il tuo modo di lavorare sul colore, fin dalle tue prime opere, penso si possa riassumere nei termini di una negazione del visibile, che ne è allo stesso tempo una sua rievocazione.
Nei primi dipinti lavoravo molto sulla luce e sul colore, su quelli che allora concepivo come paesaggi mentali influenzati da un approccio che credo possa essere detto “quasi romantico”. Lavoravo sulle superfici pittoriche, sull’esplorazione dei loro confini. Cercavo soprattutto di forzare l’uso del colore e di capire fino a dove potevo arrivare con la luce.
Vorrei considerare un momento proprio quel tuo approccio “quasi romantico”, perché ho l’impressione che nel corso del tempo abbia alimentato anche il tuo modo di conservare e ampliare l’idea stessa di paesaggio sulla quale continui a tornare.
Penso che quell’approccio si manifesti praticamente in un’idea di sviluppo della ricerca pittorica. Credo che il trait d’union tra le opere di ieri e quelle di oggi sia proprio questo. Riuscire a ottenere quello sviluppo per me vuol dire prestare la dovuta attenzione tanto alla storia della pittura quanto a quella delle tecniche che la hanno determinata.
Gradualmente, nel corso degli anni, il tuo lavoro si è orientato sempre di più attraverso una ‘formula dichiarativa’: includi nelle tue opere indizi, affermazioni, sottolineature, tracce che possano portare chi ne fa esperienza a interrogarsi sul farsi stesso della pittura.
Mi interessa qualcosa che provo a chiamare ‘la sfida dell’infinito’. Come posso mettermici e riuscire a condurla? Ci provo avendo come obiettivo il superamento dello spazio pittorico, attraverso una situazione di vuoto assoluto, che non è però il monocromo dipinto, ma è in un certo senso la dichiarazione della sua inadeguatezza ottenuta direttamente facendo pittura. La strumentalizzo a mio favore in modo da riuscire a restituire momenti che sono quasi imperscrutabili, propri delle stesse attività che animano la pittura, per poterli mettere in scena.
La messa in scena, dunque, non è tanto di un eventuale soggetto ma del fatto stesso di realizzare il dipinto. Se così, possiamo dire che hai spostato anche il baricentro della rappresentazione dalla questione dell’immagine a quella del fare l’opera.
Esatto. Aggiungerei anche che a emergere è perciò quella che io chiamo la ‘parte artigianale dell’arte’. La fase della preparazione, che solitamente non è né considerata né considerabile poiché nascosta, lentamente è diventata il centro della mia pittura. Ma, come ben dici, per lavorare così ho bisogno di lastricare la strada di briciole che ti riportano sempre sul mio percorso. Penso infatti tu abbia ragione quando vedi nel mio approccio una ‘formula dichiarativa’.
Attraverso di essa, quali risultati provi a conseguire?
Sono dell’idea che piuttosto che farci accedere a un altro mondo, un’opera ci possa consentire di esplorare uno spazio intellettuale. Questo perché sono convinta che offra altre possibilità per il pensiero. Andare al di là della tela, sia con le figure sia con formule aniconiche, significa indagare il problema metafisico in senso essenzialmente intellettuale: considerare le scelte dell’artista, le possibilità della rappresentazione. La mia idea è che si tratti di una apertura dell’intelletto.
LA PITTURA SECONDO EUGENIA VANNI
La tua è anche una dichiarazione sulla insufficienza della superficie pittorica: non sei convinta che i quadri si guardino solo frontalmente. Ad apparire è piuttosto il tuo interesse per la concretezza dell’oggetto quadro, ossia per un possibile sbilanciamento tra il nostro sguardo sull’opera e la convenzione che lo guida. Per questo dai grande importanza ai bordi, alla tela piegata affrancata sul telaio.
Sì, perché è proprio in quello spazio lì che si determina l’opera. Sono convinta che quello spazio solitamente considerato irrilevante accrediti quello frontale: negli ultimi lavori, il bordo dipinto consente alla superficie di poter diventare pittorica proprio quando non lo è. Infatti, la forza che ha una mia opera, prima di essere quella di una eventuale immagine, è di esistere in quanto entità.
Piuttosto che alla sua inattualità, infatti, tu sei più interessata all’eventuale illogicità della pittura, ossia al fatto che essa possa esserci pur non essendoci.
Mi interrogo spesso su questa condizione paradossale. Ma essa traduce appieno il mio modo di intendere la pittura. Immaginiamo che essa sia una grande piscina nella quale vi è al suo interno, sguazzante e brioso come i più giocosi bagnanti, chi usa il pennello per raccontare delle cose e chi dipinge. Io, invece, sto sul bordo e uso il pennello per raccontare la pittura.
Per te, insomma, portarla ai margini, insistere sul suo capovolgimento, significa lavorare sul cuore vivo della pittura.
Sì, anche perché in tal modo posso riuscire a fare scaturire il pensiero. Per esempio, per seguire questo approccio, ho trasformato anche le gocce – che solitamente non son altro che macchie, inutili e temporanei schizzi – in soggetti veri e propri dell’opera. I miei sono allora dipinti che raccontano la pittura dal lato della significazione delle gocce di colore. Quello che sembrava una conquista, il dripping, si rivela oggi un passaggio chiave per lo sviluppo stesso della pittura. Ciò che era così scontato, lo scarto del colore, il suo repentino palesarsi in modo casuale sulla superficie diventa invece il soggetto di un’opera dove non è però la goccia a stare in superficie ma quest’ultima a lasciarle un minimo di possibilità spaziale. Questo è il senso in cui per me la pittura c’è, ma è intorno.
Proviamo anche a trovare un centro. Spesso, guardando le tue opere ho pensato che, in fondo, il tuo sia anche un modo per sostenere che possa esserci già pittura anche in una goccia di colore.
In parte è così. Ma per poterlo sostenere, come dici tu, per me è cruciale il rapporto con il farsi stesso del dipinto. Per arrivare a dire che la goccia possa essere già pittura non basta la macchia, per me è necessario che vi sia la sua inclusione – ossia la sua restituzione – attraverso la messa in scena della finta tela di lino grezzo, dipinta sulla stoffa.
Il tuo insistere su una indagine che sviluppi tutta dall’interno della pittura permette di riconoscere che la tua poetica si basa sul pittorico inteso come condizione minima di possibilità per la riuscita della tua pittura.
Tutto quel lavoro dall’interno, che non coinvolge solo la pittura ma anche l’incisione, mi ha messo in condizione di continuare a guardare a un paesaggio in modo sempre diverso. Per esempio, una matrice di legno trovata già mangiata dai tarli non può che essere un cielo stellato. L’opera, Xilofagia-xilografia (2018), è infatti frutto di questo approccio. Così, insieme alla pittura, è anche il discorso che sto facendo che continua a trasformarsi.
Davide Dal Sasso
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