Intervista a Francesco De Grandi, il pittore che sfiora il sacro
La sua “Croce di Urbino” è stata commissionata per essere esposta nella navata centrale della Chiesa di San Francesco, tra un Federico Barrocci e un Giovanni Santi. L'occasione giusta per parlare di arte e sacro con Francesco De Grandi, pittore fra i più rilevanti d'Italia
Francesco De Grandi, 54 anni, è nato e vive a Palermo. Nel capoluogo siciliano fa parte del ristretto gruppo che costituisce l’élite artistica della città. Ma essere protagonista a Palermo significa esserlo nell’intera Sicilia: in tutti i musei, le manifestazioni, le gallerie o i teatri di quest’isola difficile e faconda insieme. Ma non solo a Palermo e non solo dai colleghi pittori a De Grandi viene riconosciuta una tecnica fuori dal comune. Durante il seminario tenutosi alla fine dello scorso gennaio all’Accademia di Belle Arti di Urbino, in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro Croce di Urbino, Gabriele Arruzzo, coordinatore del seminario, lo ha definito “responsabile di una serie di lavori effettuati negli ultimi dieci anni che entreranno nella storia dell’arte italiana”. Troppa enfasi? Nessuno può prevedere con certezza il futuro, ma interessante risulta il contesto in cui questa frase è stata pronunciata. Si tratta del commento a un’opera commissionatagli appositamente per essere esposta nella navata centrale della Chiesa di San Francesco, tra un Federico Barrocci e un Giovanni Santi.
De Grandi certo non può essere definito un pittore cattolico nel senso proprio del termine, ma dell’interesse per la sua pittura da parte dell’istituzione ecclesiastica è in qualche modo complice ed artefice. A partire dal 2013, con l’esecuzione di L’entrata di Gesù a Palermo – un olio che non nasconde il riferimento a L’entrata di Cristo a Bruxelles di James Ensor –, la meditazione di De Grandi sull’iconografia cristiana si è andata infittendo. Arriva prima una crocifissione intitolata Trisma nel 2016, un Giovanni Battista tra le piante sacre nel 2018, La Porziuncola è del 2019, come il “violento” Le tre Marie. Del 2020 è il ciclo dedicato a La macchina di Santa Rosa a Viterbo, mentre la grande tela (230×340 cm) Inizianti risale al 2021 e il Cristo arrestato come Pinocchio al 2022.
Pratica liturgica e pratica pittorica. L’iconografia cristiana ha sempre ambito a renderle una sola cosa. De Grandi lì in mezzo dove si colloca?
Nel luogo dove l’opera si presenta ai nostri occhi nella sua dimensione sacra. Cerco di generare l’incantamento, uso la pittura come mezzo di conoscenza, l’unico capace – per quanto mi riguarda – di affrontare le domande che non hanno risposta, di aprire quelle “porte regali” che conducono al “totalmente altro”. Cerco l’inconsumabilità della pittura, quella funzione che sfugge alla linearità, al collocamento nel suo ufficio temporale, l’opera pittorica non identificata, individuando nell’iconografia cristiana un archetipo individuale, sepolto nella memoria collettiva dell’Occidente.
Per alcuni contemporanei una Crocifissione può essere un topos, niente di più che un impianto, un accesso alla riflessione. Vale anche per te?
Un Cristo in croce può intenerirti fino alla conversione se a dipingerlo è Beato Angelico, o può farti perdere la fede e la ragione se a dipingerlo è Grünewald o Holbein, e ce lo racconta benissimo il principe Myskin nell’Idiota di Dostoevskij. Allora c’è qualcosa che va oltre le immagini, i manufatti contengono un potere che va oltre la rappresentazione. Per gli ortodossi l’immagine dipinta, se risponde a certe misure, diventa sacramento. Questo ci fa capire quanto la pittura sia lontana dalla mera rappresentazione, dalla riproduzione, quanto invece la sua presenza immediata sia una presenza sacra. Papa Francesco nell’omelia solitaria durante la pandemia ha esposto al vento e alla pioggia un crocefisso ligneo del Trecento, non una riproduzione, quel crocefisso, un oggetto che si è gonfiato, screpolato, spaccato, si è fatto di nuovo carne, connettendosi nel tempo e nello spazio allo stato fisico che in quel momento l’umanità intera stava attraversando, transustanziandosi ancora una volta, ripulendo il mondo dal più grande peccato che l’uomo reitera da sempre: il tradimento della divinità generatrice, la Terra.
La tua perizia tecnica fa da contrasto con la profondità tragica di molti dei tuoi soggetti: naufragi, paesaggi solo apparentemente tranquillizzanti, ritratti cadaverici del Salvatore…
Non vedo il nesso tra perizia tecnica e contenuto dei dipinti, inoltre non ritengo di essere particolarmente dotato, forse sono solo consapevole di come funziona la pittura. Il senso tragico pervade l’esistenza, è uno degli elementi. Per quanto riguarda la rappresentazione del Cristo, attendo di arrivare a dipingerlo risorto, ma la strada è ancora lunga.
Il tema della resurrezione della gloria e della luce: hai mai pensato a un soggetto del genere?
Come dicevo è una domanda che mi interessa, ma ancora non sono pronto neanche a formularla.
Tu preghi?
Per me la pittura è una forma di preghiera.
Nella tua Crocifissione urbinate, in mezzo a una selva di scale, ponteggi, tralicci e picche, si scorgono diversi altoparlanti. Che ci stanno a fare gli altoparlanti sul Golgota?
Sono le voci dei demoni, che insultano, propagandano, mentono, diffondono la menzogna, l’odio e la separazione.
Nei tuoi lavori compaiono spesso gli uccelli: pavoni, ibis e in quet’ultimo molti corvi. Da dove arriva questa mania?
Sono stato cacciatore. Compaiono anche cani, insetti e serpenti. Tra poco inserirò gatti e cavalli. Hokusai morì a novant’anni, indispettito per non aver più il tempo di disegnare ogni cosa del mondo. Spesso è solo la fame di voler dipingere qualcosa che non hai dipinto abbastanza, a volte sono assonanze come i corvi di Hitchcock o simbologie cristologiche come il pavone o il pellicano.
Sei palermitano doc, ti stai misurando con 2mila anni di arte cristiana, ma nella tua biografia sta scritto “artista italiano”. Che vuol dire per te essere italiano?
“Ma per fortuna o purtroppo lo sono”, cantava Gaber. Dipingere ti porta a misurarti con un serbatoio di pitture che parte dalle grotte di Chauvet e arriva a ieri pomeriggio. Il primo contatto che ho avuto con la pittura è avvenuto dentro una chiesa di fronte a un quadro di iconografia cristiana magistralmente dipinto da uno degli innumerevoli pittori italiani straordinari che hanno riempito le chiese delle più grandi città fino alle canoniche più sperdute del territorio peninsulare. La geografia è destino. È un imprinting, è andata così.
Aldo Premoli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati