Anticipatore e visionario. Ecco perché Piero Gilardi non va dimenticato
Ha pagato a caro prezzo le scelte, nette, compiute durante la sua carriera. E proprio per questa ragione Piero Gilardi, scomparso pochi giorni fa, merita un ruolo centrale nella storia dell’arte contemporanea
La perdita è grave: il 5 marzo Piero ci ha lasciato. E ci ha lasciato pure un grande debito da saldare. Un debito che tutti noi abbiamo contratto: con chi se non con lui? Credo che nessuno (artista, intellettuale, politico, scienziato) abbia dato ‒ come Piero Gilardi (Torino, 1942-2023) ha dato ‒ così tanto alla cultura italiana senza riceverne nulla in cambio. Certo, per quanto gentilissimo, il suo carattere non era accomodante. Ricordo una conversazione con Pistoletto in cui Michelangelo mi diceva: “Una volta presa la decisione di fare un bagno con Piero e trovando la piscina vuota d’acqua, io mi sarei fermato sul bordo, Piero si sarebbe tuffato lo stesso”. L’intransigenza di Gilardi non era comunque tale da giustificare quanto lui abbia poi dovuto pagare ogni scelta che ha fatto. Ma quella che definiamo ‘la sua intransigenza’ non era altro che ‘autentica radicalità’. Ci voleva la personalità di Gilardi per voltare le spalle, nel 1967, a un quartetto galleristico d’eccezione come Ileana Sonnabend, Gian Enzo Sperone, Fishbach e Zwirner, in modo tale da interrompere ‒ cioè ‒ la propria attività creativa nel momento di maggior successo dei suoi celebri Tappeti-Natura in poliuretano. Ci voleva il coraggio di Gilardi per ideare due mostre miliari della scena artistica internazionale come When Attitudes Become Form e Op Losse Schroeven per poi tirarsene fuori all’ultimo momento, rendendosi nemiche figure come Harald Szeemann e Wim Beeren. Chi altro non si sarebbe limitato a proclamare la contestazione e sarebbe sceso, invece, nelle piazze, avrebbe fatto picchettaggio fuori della Fiat a fianco di operai in sciopero? Chi si sarebbe unito alle degenti dell’ospedale psichiatrico femminile o agli anziani del quartiere Aurora di Torino? Chi avrebbe messo la propria arte al servizio di Tazi Bao, murales comunitari, teatro di strada politico, cortei del primo maggio, fino alle mascotte in gommapiuma per il movimento No Tav? Ma tutto questo avrebbe avuto un senso diverso se Gilardi non avesse rappresentato una figura chiave nella genesi dell’Arte Povera e dell’arte internazionale alla fine degli Anni Sessanta.
LA STORIA E L’ARTE DI GILARDI
Gilardi in questo momento passa dall’essere un inventore di forme a creatore di formazioni: con spazi deputati che le accolgono (il Deposito d’Arte Presente di Torino è una di queste comunità temporanee) e nomi propri che le designano (la definizione “arte micro-emotiva” ne è un esempio). I viaggi tra New York e la West Coast, tra la Svezia e l’Olanda, tra la Germania e l’Inghilterra, così come la corrispondenza con la neonata Flash Art o le pubblicazioni per la rivista americana Arts Magazine, la svedese Konstrevy e la francese Robho, sono gli strumenti di questa nuova fase creativa che lo vede una sorta di tessitore mercuriale (Robert Lumley) di relazioni artistiche. Non a caso, la prima volta che i nomi di Joseph Beuys o quello di Richard Long entrano in Italia la dobbiamo a Gilardi. Ma, subito dopo, tali formazioni non saranno più artistiche ma diventeranno socio-politiche e sempre in contesti diversi – negli Anni Settanta i movimenti operai e antagonisti; negli Anni Ottanta le società extraeuropee (dal Kenya alle riserve indiane al Sud America); nei Novanta le tecnologie digitali, l’interazione e la rete; l’ecologia nel nuovo millennio, anche se praticata già dagli Anni Sessanta. Mi viene sempre in mente una frase che Piero ripeteva e traeva da una parabola popolare a sottolineare la sua fede nei processi collettivi, dialogici e di co-creazione: “La verità non può essere contenuta in un solo sogno, né nel sogno di uno solo”. Piero stesso, come altri della sua generazione, era già un soggetto collettivo in sé: i Gilardi, al plurale. Infatti quale delle sue molteplici entità scegliere? Quella dell’artista, quella del teorico, quella dell’attivista, quella del curatore, dell’animatore teatrale, quella dell’attore in un film di Andy Warhol, quella dello sperimentatore dei new media o quella dell’ecologista?
La decentralizzazione del soggetto in Gilardi è costitutiva, matura in lui la consapevolezza in un io molteplice e frattale che lo condurrà alla bioarte e, ancora e di nuovo, alla fondazione ulteriore di microcomunità alternative come il Gruppo di discussione sull’Io virtuale di Torino, Ars Technica di Parigi, il PAV ‒ quale ultimo suo progetto visionario del rapporto tra arte ed ecologia, dove mi ha invitato a lavorare dal 2014 e di cui sono fiero di far parte.
GILARDI TRA ATTIVISMO E SPERIMENTAZIONE
Tutto ciò senza mai abbandonare il suo ruolo nelle campagne attiviste contro il nucleare, a favore della Palestina libera, a sostegno delle rivendicazioni ambientaliste e sociali del movimento No Tav in Val di Susa. Il problema del rapporto arte e vita, tanto discusso dal gruppo poverista e dalla cultura post-Sessantotto, acquista allora un altro spessore. Gilardi si rende conto che si tratta di un falso problema. Portare l’arte nella vita non salva l’arte, il vero problema è decolonizzare e trasformare la vita in modo tale che possa accogliere l’arte. Che, altrimenti, rischierebbe una ennesima cattura, visto che le rotture e le forme liberatorie vengono poi riassortite dalla dimensione molare dell’istituzione, quando – cioè – “le attitudini diventano Istituzioni”.
Per questo mi piace ricordare Piero, con la sua attitudine giocosa, per quella sua carnevalizzazione del mondo che per Gilardi (come per Bachtin) è un elemento imprescindibile per profanare i tempi e ribaltare i luoghi, le distribuzioni funzionali, le attribuzioni sociali. Rispetto all’oggetto lontano e assoluto che l’arte continua incessantemente a prefigurare, in Gilardi non c’è altro che la prossimità di un mondo avvicinato e familiarizzato, un mondo che non va contemplato ma capovolto, smontato e rimontato attraverso la gommapiuma, il riso, l’immaginazione e l’imprecazione gioiosa. Il carnevalesco non rispetta le divisioni tra il politico e l’estetico, tra l’alto e il basso, tra il sensibile e l’immateriale, tra l’idealizzazione del passato e il presente incompiuto: le trasgredisce con una combinazione di corpi e segni che si fanno e si disfano continuamente, con una mescolanza di serietà e divertimento, con sfide alla irreversibilità del tempo. In questo temporaneo sovvertimento dell’ordine esistente, le cose, i ruoli, le azioni non sono più l’espressione di qualcosa che preesiste ed è già dato, ma sono l’espressione di un nuovo orizzonte che si è aperto e non cessa di aprirsi.
Di fatto, solo negli ultimi anni (anche se molto lentamente) e grazie ad alcune importanti mostre monografiche (al Castello di Rivoli, al Van Abbemuseum, al MAXXI, al Magazzino Italian Art) e a certi studiosi internazionali, sta emergendo la centralità del ruolo che Gilardi ha avuto di anticipatore, di visionario, di sperimentatore tanto in campo artistico che sociale, ben oltre la dimensione moderna dell’arte. Piero Gilardi non appare più come un’anomalia eclettica ma come un grande contemporaneo che le giovani generazioni riconoscono e salutano come tale. Dunque, non ci resta che saldare il nostro debito.
Marco Scotini
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