I curatori d’arte stanno avendo una crisi di identità?
Se negli Anni Settanta il ruolo del curatore era ancora poco noto, oggi a che punto siamo? Una riflessione a partire dall’esempio di Pier Luigi Tazzi, grande curatore morto nel 2021
“Medice, cura teipsum”, dice Gesù, per ricordare che chi crede di poter guarire i mali altrui prima deve aver risolto i propri. Dato che il termine “curatore” deriva proprio da cura, le parole evangeliche tornano alla mente in occasione della giornata di studi dedicata a Pier Luigi Tazzi (1941-2021), Dal grado zero della critica alla crisi della curatela, tenutasi a Palazzo Strozzi a Firenze il 17 dicembre scorso (a cura di Lorenzo Bruni), con un comitato organizzatore di tutto rispetto, da Fabio Cavallucci a Hou Hanru, e un parterre altrettanto autorevole, che svariava da H.U. Obrist ad Angela Vettese, da Elio Grazioli a Giorgio Verzotti, a Viktor Misiano a Rirkrit Tiravanija e via dicendo (l’intero godibilissimo incontro è visibile su YouTube).
Infatti, a sentire tutti questi esperti, pare che la figura del curatore, benché molto richiesta, stia attraversando una crisi di identità o, perlomeno, sia in una fase di profonda ridefinizione. Del resto, lo stesso Tazzi è stato un curatore e un critico del tutto sui generis, capace, come è stato osservato, di passare dalla curatela di kermesse internazionali, come la Biennale di Venezia o documenta IX (1992, con Denys Zacharopoulos e Bart de Baere, entrambi presenti per ricordarlo), all’organizzazione di convegni (Critica 0, 1978), e di mostre “in miniatura”, ma di raffinata confezione (come quelle alla Fondazione Lanfranco Baldi di Pelago). Questo suo profilo “inclassificabile” testimonia la vitalità di un ruolo insostituibile quale quello del curatore, ma, oggi più che mai, ne rende assai problematica la collocazione, il significato e in definitiva anche la funzione.
“Negli Anni Settanta, in cui un personaggio come Pier Luigi Tazzi organizzava i suoi primi convegni e le sue prime mostre, il concetto stesso di ‘curatela’ era praticamente ignoto”
L’IMPORTANZA DELLA CURATELA
Tuttavia, questa crisi non è certo casuale. In effetti, negli Anni Settanta, in cui un personaggio come Tazzi organizzava i suoi primi convegni e le sue prime mostre, il concetto stesso di “curatela” era praticamente ignoto e tutto ciò a cui si poteva aspirare era la direzione di uno spazio museale o l’assai incerta carriera di critico d’arte. Mezzo secolo dopo, si potrebbe dire, al contrario, che non c’è evento culturale, pur (in)degno di questo nome, che non abbia il suo bravo “curatore”, il quale talvolta assume questa funzione senza avere la minima idea di che cosa significhi. Insomma, si è passati da un regime di generale indigenza, con pochi spazi espositivi, poche mostre e ancor meno curatori, a un regime di insostenibile sovrabbondanza, con talmente tante proposte che è semplicemente impossibile seguirle tutte.
Ma questo repentino mutamento non deve offuscare il punto della questione: ieri come oggi, la curatela, intesa rettamente, come atto ermeneutico, ideologico e critico, lungi dall’essere un elemento ininfluente o accessorio, è un atto cruciale. Curare, costruire, gestire od organizzare in qualunque modo un progetto artistico o culturale ha una rilevanza strategica, perché significa definire – o ridefinire – un intero scenario, con i suoi attori, le sue gerarchie, il suo significato.
CURATELA E RESPONSABILITÀ
“Curare” vuol dire plasmare un intero immaginario, significa decidere a chi e a cosa dare spazio, o non darlo – e implica in ultima analisi prendersi delle enormi responsabilità: significa reinterpretare la realtà del fare arte (come fece Harald Szeemann con When attitudes become form, 1969), combinare il contemporaneo con l’antico (come fece lo stesso Tazzi con Happiness. A Survival Guide for Art and Life, 2003), ricreare una mostra mai realizzata, quella del ventennio del fascismo (come fece Germano Celant con Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943, 2018), o addirittura costringerci a rivedere completamente il nostro concetto di “classico” (come fece Salvatore Settis con Portable Classics, 2015).
Esattamente per questo, è cruciale, qui, non disgiungere ma porre in relazione reciproca esiguità e sovrabbondanza: a dispetto della soverchiante profusione di mostre, biennali, collettive, personali e via dicendo, infatti, il numero di quelle davvero memorabili è estremamente ristretto.
Perché una mostra, di qualunque genere si tratti, non si esaurisce nell’arredo di spazi più o meno blasonati, né nell’esposizione di opere più o meno rare, affascinanti o dirompenti, ma nella produzione della risorsa in assoluto più scarsa – il senso.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70
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