Una questione di luminosità. La mostra di Maria Adele Del Vecchio a Napoli
Fotografie, neon, oggetti quotidiani: nella mostra alla galleria Tiziana Di Caro Maria Adele Del Vecchio fende la notte con una luce che viene dall’interno delle opere. E che parla di intimità, memoria, ricordo
Nelle opere di Maria Adele Del Vecchio (Caserta, 1976) la luce passa dal rimosso all’illuminato, da (mai del tutto) spento a rischiarato. L’artista agisce dall’interno, con un focus luministico innaturale quanto plausibile che con una torcia fa prender vita in foto a ninnoli e oggetti domestici, testimoni di memorie, di storie e vissuti.
Piccoli manufatti d’affezione, che non ereditano nulla dallo svuotamento Pop, e tutto invece da Man Ray e dai simulacra che gli Egizi dedicavano a chi ci vive ancora nel cuore, e non più in terra. Volti e occhi che ci guardano ‒ ora inquietanti, ora commoventi o interrogativi – come maschere e personaggi euripidei, mettendo in scena una narrazione corale, su tutte le vite, femminili ma non solo, svalutate e imbrigliate.
LA MOSTRA DI MARIA ADELE DEL VECCHIO A NAPOLI
“Sentinella, a che punto è la notte?”, domanda da molto prima di Euripide la Bibbia a qualunque anima interroghi la sua sospensione. Quello spazio, di angoscia o speranza, ma comunque di libertà, che l’anima può vivere solo quando è con se stessa, nella notte dell’intimità, protetta da giudizi, aspettative o pretese altrui.
Ma la luce ora, non a caso misteriosa, sembra venire da dentro: abbandona pretese di definizione eterodirette, scrive ricordi in immagini e raffigura storie con le parole: la possibilità di narrazione in arte è punctum di equilibrio raggiunto dall’artista, la chiave è il tempo, che si respira potente in ogni lavoro, come la luce.
LUCE ED ENERGIA NELLE OPERE DI MARIA ADELE DEL VECCHIO
Un lumen che connota la genesi estetica di tutte le opere in mostra. Facendosi parola sul tempo stesso, nel fazzoletto iniziale arabescato di poesia. Tremolante danza di cupio dissolvi e libido vivendi nell’autoritratto-candela in progress, Urs Fischer docet. Solidificazione di voci dello spirito nel neon scultoreo, molto più da Tracey Emin che da Joseph Kosuth. E poi alba interiore, nello specchio modificato che offusca e insieme disvela l’identità al fruitore. E che fa lumeggiare, infine, mille fotogrammi di commozione e ricordo, senso e verità, nelle foto finali.
Eccola, l’energia che attraversa. Come scintilla negata, offuscata, ma mai annichilita, e ora passata come testimone, di generazione in generazione, rinnovando il vincolo con la vita, con tutte le vite, cui si ridà esistenza, voce, dignità, pietas.
Diana Gianquitto
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