Come è andata la residenza degli artisti ucraini a Milano?
Per un anno, le ex cisterne della Fabbrica del Vapore di Milano hanno accolto in residenza alcuni artisti ucraini che hanno lasciato il proprio Paese in seguito alla guerra. Ne abbiamo parlato con il curatore e con l’artista, Alina Kleytman
Nelle ex cisterne della Fabbrica del Vapore, il Comune di Milano ha avviato un anno fa la residenza artistica Rolling Refugee Home Museum On Wheels, a cura di Sergey Kantsedal, avviata nel maggio 2022 e confluita nella mostra HOW YOU DARE?, appena conclusa. Ideata con l’intento di accogliere artiste e artisti ucraini dopo lo scoppio della guerra, ha accolto le pratiche trasversali di tre artisti, Alina Kleytman, Katya Kopeikina e Vladislav Plisetskiy.
Al centro della loro ricerca, il corpo, il suo rapporto con le codifiche socioculturali legate all’ambiente e le sue implicazioni politiche in questo momento storico.
La residenza, secondo le parole del curatore, è stata pensata sin dall’inizio come un laboratorio di produzione e sperimentazione in cui gli artisti potessero allontanarsi dalla guerra ed elaborare il trauma attraverso riflessioni a 360 gradi sulle contraddizioni e le complessità che il conflitto comporta rispetto all’identità e all’idea di casa.
Le pratiche degli artisti in residenza sono accumunate dalla sperimentazione sul corpo, dalla sua trasformazione attraverso protesi e ibridazione; dalla sensazione di transizione e cambiamento che ritroviamo anche nel concept alla base della residenza, che ha voluto restituire il senso di precarietà, incertezza e volontà di ricostruire.
Per un anno le ex cisterne della fabbrica del vapore si sono trasformate in un luogo della comunità che, pur partendo dalla necessità di fare arte e condividere l’esperienza creativa, è stato innanzitutto uno spazio ibrido, foriero di incontri. In questo spazio, che nell’arco di un anno ha più volte ospitato eventi e performance improvvisate in maniera spontanea, il pubblico italiano ha potuto scoprire nomi di spicco dell’arte ucraina, come nel secondo open studio, Dirty bottom of the future, che ha visto esibirsi il collettivo Kvirtet Collective e l’arista BOJI, personalità del panorama artistico queer attivi tra Kiev e Berlino.
CURARE UNO SPAZIO IBRIDO. PAROLA A SERGEY KANTSEDAL
In che modo avete fatto vostro lo spazio? Che luogo avevate in mente quando lo avete progettato?
La nostra idea è sempre stata quella di costruire uno spazio ibrido in cui chiunque era il benvenuto. Avevamo in mente un rifugio senza confini o giudizi, uno spazio non definito in cui vengono cancellate le distanze, in cui fare interagire le persone all’interno di una situazione non circoscritta a una cornice istituzionale, una pratica e ricerca che porto avanti all’interno di Spazio Barriera a Torino, inedite per Fabbrica del Vapore.
Perché avete scelto HOW YOU DARE? come titolo della mostra? Di per sé suona già come uno statement ben preciso.
Lo abbiamo scelto come risposta a chi ci ha definito non politici, inopportuni in un periodo di guerra, come a voler dire “come ci permettiamo” di lasciare tutto e stare qui a fare arte. Eppure, la nostra riflessione sul corpo e la sua espressione ‒ attorno a cui ruota l’intera residenza ‒ nasce proprio dal fatto che, quando si è in guerra, una delle prime cose che si perde è il controllo sul proprio corpo.
Volevamo mostrare come l’aggressione passa innanzitutto per la privazione dell’identità e tutto ciò che la costituisce, compresa la cura del corpo e la sua espressività. Come si fa a non definire politico un tentativo di riappropriarsi di qualcosa di tanto basilare?
Ci parli dell’idea alla base dell’open studio Nail of Destiny, tenutosi a dicembre 2022, e della collaborazione con il progetto Una Sauna di Nobody’s Indiscipline?
La pratica di ricostruire le unghie in Ucraina ha delle specifiche connotazioni sociali: è qualcosa di estremamente economico, e che dunque molte donne possono permettersi, divenendo così uno status symbol, ma che porta con sé anche le problematiche che investono chi immigra in Paesi in cui non è così accessibile ed è dunque costretto a rinunciarvi perdendo parte della propria identità. In guerra poi diventa qualcosa che non ci si può assolutamente permettere, poiché la cura del corpo diviene un dilemma etico, viene ridefinito per via della priorità funzionali ma anche morali. La collaborazione con Una Sauna invece nasce da una riflessione sul simbolismo della sauna stessa, tra purificazione e bene di lusso, cura del corpo ma anche luogo di cruising per le comunità queer e BDSM, e che per le sue connotazioni architettoniche espone il corpo nudo alla cura dell’altro creando dinamiche di reciproco supporto: è un non-luogo di rigenerazione e convivialità distaccate dal tempo, dallo spazio, e dalla comunità di appartenenza, come l’intera residenza stessa.
PAROLA ALL’ATRISTA ALINA KLEYTMAN
Gli artisti in mostra partono da un’aggressione violenta, quella della negazione dell’origine, dell’identità. Ma allo stesso tempo, anche prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina basava la sua politica su un senso molto stretto di identità nazionale, che tende a escludere l’alterità. L’opera video di Alina Kleytman (Kharkiv, 1991), The Four Revenges of Queen Olga, si posiziona esattamente su questo confine sfumato tra vittima e carnefice, rimandando a un’idea di violenza che è insita nella storia dell’uomo ancor prima dei particolari eventi storici. Per il suo video, impersona la figura mitica della prima imperatrice, santa e assassina, della storia ucraina. L’artista rivisita la storia della regina Olga, conosciuta dalla religione ortodossa per aver diffuso il cristianesimo nell’impero russo, ma è ricordata soprattutto per la crudeltà che circonda il suo mito, la sua spietatezza matematica nel vendicare la morte del marito. Tra mito e leggenda, si narra che la regina abbia usato raffinatissimi strategie e inganni per trovare e punire gli assassini dell’imperatore e difendere il suo regno, arrivando a sterminare un’intera tribù e divenendo così l’imperatrice più prolifica dell’impero russo nonché la fautrice della sua fortuna.
Per l’artista, la questione dell’identificazione dei ruoli nelle dinamiche della violenza rimanda alla necessità dell’empowerment femminile, ancora più fondamentale in scenari di guerra, quando la sopraffazione militare avviene soprattutto attraverso l’aggressione sulla donna, e il corpo femminile viene usato per diffondere terrore e innescare la sottomissione di intere comunità.
Come hai unito la necessità di diffondere un simile messaggio alla tua personale esperienza della guerra e come lo esprimi attraverso la tua arte?
Al secondo giorno dallo scoppio del conflitto mi sono offerta di combattere ma sono stata rifiutata, mi hanno detto che non avevano bisogno di me. È stata la prima volta che mi sono sentita privata del potere, combattere era un mio diritto. La seconda volta è stata quando è arrivata la prima notizia di uno stupro da parte dei soldati russi. In quel momento ho realizzato che il mio potere era trovare il coraggio di andare via, ammettere di non avere i mezzi per difendersi. Essere educati alle proprie capacità, fisiche e mentali, è per me la prima forma di empowerment femminile. Come la regina Olga, imparare a non muoversi senza avere una strategia. Cerco sempre di chiedermi, e invogliare l’altro a chiedersi: quale influenza voglio avere sugli altri? Quali sono, in quel preciso momento, le mie capacità e le mie responsabilità per influenzare il mondo intorno a me?
Decidere di restare in una situazione in cui puoi diventare vittima, è una scelta. Riconoscere la responsabilità del proprio ruolo, che sia aggressore o vittima, è potere, non esiste condizione, di guerra o di pace, in cui non si è responsabili per ciò che ti circonda.
Qual è la prova definitiva circa l’autoalimentazione della violenza che vorresti maggiormente mettere in luce attraverso la tua arte?
Il modo in cui le opere Powerless Femininity e Toxic Masculinity si riflettono l’una nell’altra simboleggia la loro co-dipendenza, mostra come nessuna forma di violenza possa esistere senza il suo corrispettivo che rinuncia al proprio potere. La violenza non è un sistema innato, ma si alimenta specchiandosi nelle gradazioni e nelle sfumature dei ruoli e degli eventi. Nel corso della storia la donna ha esperito tutte le sfumature dell’essere vittima. Ed è a partire da questa esperienza che ci si dovrebbe chiedere: nell’infinito splendore della violenza umana, dov’è la tua capacità di brillare?
Le tue sculture sono capaci di restituire il disagio e la paranoia che possono essere esperite solo quando vengono a mancare tutte le condizioni di affetto, familiarità, casa e identità. In che modo affronti una simile perdita e in che cosa vedi la possibilità di ricostruzione?
È importante imparare come rendere la totale disgregazione delle proprie certezze una fortuna e non un bad trip, e lo si può fare realizzando che anche la distruzione è parte di un processo più grande. Se sono in grado di riconoscere la perdita e di processare il dolore, allora non mi resterà altro che vivere l’esperienza della ricostruzione e della creazione, e a quel punto riconquistare il proprio potere, ritornare a guardare al futuro e alle possibilità.
Rosaria Murolo
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