Due grandi mostre su Jimmie Durham a Napoli
Morto nel 2021, Jimmie Durham ha combattuto con ironia e intelligenza stereotipi e autoritarismi. Il Museo Madre e la Fondazione Morra Greco lo ricordano ripercorrendo la sua carriera
Il Museo Madre di Napoli e la Fondazione Morra Greco rendono omaggio a Jimmie Durham (Houston, 1940 – Berlino, 2021) con due mostre incluse nello stesso progetto. Esplorabili in sequenza, senza un ordine temporale, le due mostre sembrerebbero più un unico grande progetto, un ritratto di Jimmie Durham a due battenti, che si aprono sulla sua pratica artistica e sul suo modo di pensare: il primo battente è la storia dell’artista, raccontata attraverso le sue opere, il secondo è uno sguardo alla persona, al suo mondo privato.
Su Jimmie Durham sono state scritte molte cose e tante sono state le mostre dedicategli, soprattutto negli ultimi anni, ma mai in Italia è stata realizzata una rassegna così intrisa di elementi biografici, segni, immagini, pensieri, riscoperti e riletti nel loro rapporto fondante con l’opera d’arte, che riconquista una sensibilità politica, e non più ideologica, rispetto all’immaginario collettivo.
JIMMIE DURHAM AL MADRE DI NAPOLI
La mostra allestita al museo Madre, intitolata Jimmie Durham: humanity is not a completed project, a cura di Kathryn Weir, raccoglie oltre 150 opere provenienti da diverse collezioni, oltre a testi, materiali d’archivio, video, fotografie, scelti per muoversi sul terreno da cui traggono origine i lavori e le riflessioni dell’artista, che sondava le complessità della realtà con lo stupore di chi vive l’incontro con le cose del mondo, anche le più marginali in apparenza, come base per una avventura sorprendente. Durham era un artista antropologo, privilegiava un agire creativo connesso con le pratiche della vita quotidiana, riusciva, infatti, a narrare e a investigare l’alterità in forme culturalmente non autoreferenziali, mettendo al centro della sua indagine la pluralità dello sguardo sul mondo e sulle pratiche culturali, evitando di cadere nell’esotismo estetizzante della cultura occidentale del Novecento.
Jimmie Durham: humanity is not a completed project sostiene il ritmo di una narrazione che obbliga non solo a guardare ma a sondare internamente il proprio immaginario, attraverso l’attivazione di cortocircuiti che disturbano la cultura dominante, quella degli stereotipi rigidi, delle linee di autorità stabili, degli atteggiamenti coloniali e delle resurrezioni museologiche. Sculture, disegni, collage, fotografie, video animano la grande mostra del Madre, come un labirinto che mostra l’al di là dello specchio: dagli animali-sculture agli oggetti riassemblati, dai video delle performance agli autoritratti ironici e mistificanti, dalle installazioni alle fotografie d’archivio, dalle mappe geografiche ai ritagli di quotidiani, fino alle opere più iconiche, come la Malinche, la donna azteca venduta a Hernán Cortés come schiava e che divenne sua interprete e moglie. Jimmie Durham aveva origini Cherokee e per anni fece parte del consiglio di amministrazione dell’American Indian Movement, e molti dei suoi primi lavori fanno riferimento alla lotta per i diritti dei nativi. Storie non raccontate, incompiute o messe in ombra traspaiono dalle infinite possibilità estetiche e parlanti degli oggetti che compongono le sue opere.
LA MOSTRA SU DURHAM ALLA FONDAZIONE MORRA GRECO
Il rapporto tra produzione artistica e critica sociale permea tutto il lavoro di Durham, il quale rimette in azione i materiali storici, del passato e del presente, fisici, di scarto e anche deperibili, per contrastare le strutture disciplinari e impositive degli autoritarismi, come si può leggere anche tra i suoi scritti, mappe di segni che producono forme di interferenza. E sono proprio i suoi scritti a essere protagonisti della mostra allestita negli spazi della Fondazione Morra Greco, Jimmie Durham: And now, so far in the future That no one will recognize Any of my jokes, che, come scrive il curatore Salvatore Lacagnina, è “una narrazione obliqua del lavoro artistico, del pensiero e dell’attivismo politico di Durham, delle sue letture, delle sue attitudini, delle sue posizioni”. Lacagnina ha ricostruito la mappatura interiore di Durham, letta come un’infinità di tracce senza l’effetto della pulsione archivistica, in alcuni casi forse solo accennata, piena di memorie, pensieri, passaggi di corpi, abitudini. Nella sua istanza performativa la parola enuncia un recupero del suo essere collettivo, diviene, nel suo approccio scultoreo e grazie al fluire delle lettere su lunghi strati di carta bianca, un campo creativo di possibilità palpabili, di viaggi imprevisti.
In una delle interviste che compongono le diverse sezioni della mostra, Jimmie Durham e Maria Thereza Alves conversano sul terrazzo della loro casa studio di Napoli a proposito di Giordano Bruno, l’innovatore forse più visionario della filosofia rinascimentale, e di come il suo pensiero abbia consentito di percepire in altra maniera il senso dello stare al mondo. Giordano Bruno concepiva l’universo come qualcosa di decentrato, di infinito e di infinitamente popolato, ospite di una molteplicità di mondi, in cui tutte le creature sono uguali e straripanti di vita, perché ogni cosa nell’universo è animata. Il legame fra Giordano Bruno e il pensiero di Jimmie Durham si ritrova nella sua pratica artistica, che solleva la possibilità di un’etica capace di connettere l’umanità alle entità materiali, qualunque esse siano, proprio in virtù della vivacità della materia. Tutta la ricerca di Jimmie Durham può essere forse considerata come un montaggio senza fine di rituali e oggetti trovati, ironicamente interpretati e assemblati in modo anticategoriale, anche attraverso l’esperienza parodica del corpo.
Francesca Blandino
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