Colonialismo e opacità nella mostra di Daniel Boyd a Berlino
Gli aspetti più complessi della storia australiana emergono dalla mostra al Gropius Bau. Protagoniste le opere di un artista che conosce da vicino l’idea di sradicamento
Un pavimento nero con una texture di piccoli cerchi specchianti disciplina, in tenui e regolati passaggi chiaroscurali, l’atrio centrale del Gropius Bau. Una struttura simile, ma con gli specchi sostituiti da fori, scherma le finestre del piano superiore. Costringe la luce a disegnare modulari geometrie sul pavimento e sulle pareti, tributando, infine, un valore ambientale e immersivo all’intervento di Daniel Boyd (Cairns, 1982). Luci e ombre della storia, volte in epifaniche presenze, s’insediano nel museo berlinese che dedica a uno dei principali artisti australiani Rainbow Serpent (Version), una mostra ampia sulla storia eurocentrica dell’Australia e, dunque, inscritta all’interno dei processi di decolonizzazione politica e culturale in corso.
A cominciare dal titolo della mostra, “serpente arcobaleno”, che richiama l’irrispettosa genericità con cui venivano rubricate le culture indigene senza salvaguardarne le rispettive differenze. Boyd, con l’aggiunta del dovuto (Version), sottolinea pertanto la necessità storica di ricondurre quei saperi alle originarie caratteristiche identitarie.
LA MOSTRA DI DANIEL BOYD A BERLINO
Curata da Stephanie Rosenthal e Carolin Köchling, in collaborazione con l’Institute of Modern Art di Brisbane, la mostra ospita quarantaquattro dipinti e le due installazioni concepite per l’atrio e per le finestre del Gropius Bau. Involucri che consentono all’artista un diretto confronto con le istituzioni europee e che, nella fattispecie, modificano la fruizione dell’edificio, collocato a ridosso del Muro, nella Berlino divisa, già museo etnologico e per questo anche tempio dell’antropocentrismo occidentale. Boyd manifesta fin da piccolo la propensione al disegno, quando comincia a vendere ai turisti le sue produzioni. Dopo aver completato, nel 2005, gli studi alla School of Art & Design dell’Australian National University di Canberra, intraprende l’attività espositiva. È il primo artista aborigeno a ricevere, nel 2014, il prestigioso Bulgari Art Prize con Untitled (PW), una documentazione sulle esperienze coloniali del Grande Oceano (il Pacifico), soprattutto deportazioni nelle quali sono coinvolti anche i suoi antenati.
Centrale, nel suo lavoro, resta la profonda riflessione sulla storia australiana e sull’etica della colonizzazione, intrecciata a saperi indigeni, biografie, testimonianze familiari e riversata in riesumate fotografie storiche o nei dipinti. Su entrambi Boyd sovrappone puntini di colla mescolati a vernice nera, lenti per ostacolare una percezione nitida e sottrarre visibilità all’immagine. Servono a introdurre il diritto all’opacità, intuizione teorica del poeta e filosofo Édouard Glissant, caro a Boyd, riferita alla complessità multipla delle culture indigene. Concezione opposta a quell’idea di trasparenza, identificativa del pensiero occidentale, che si predispone a “com-prendere”, etimologicamente a prendere con sé, e, di conseguenza, a ridurre le differenze nella coerente unità del logos. Sulla scia di Glissant, l’opacità viene resa sia delegando alle piccole lenti, rilevate e lievemente plastiche, l’effetto disturbante, sia deputando alle schermature forate delle finestre l’avvolgente amplificazione del concetto nello spazio.
IL COLONIALISMO SECONDO BOYD
In aggiunta, la tecnica delle lenti usata a partire dal 2010 tutela la diversità dei suoi numerosi soggetti, quali il National Black Theatre (compagnia teatrale gestita da aborigeni nei sobborghi di Sydney), l’attivista Angela Davis, la moglie di Marlon Brando, Tarita Teri’ipaia, la terra aborigena in rapporto ai diritti dei neri e dei movimenti indigeni in Australia e negli Stati Uniti. Boyd riconsidera le iconografie della storia del colonialismo europeo, gli schemi antropologici codificati nelle fotografie scattate dai missionari e se ne serve per ribaltare sguardi e paradigmi in contesti come la London Missionary Society o per rivedere il ruolo della chiesa anglicana a Vanuatu, dove visse anche il suo bis-bisnonno, prima del trasferimento coatto nel Queensland. Fece parte della cosiddetta “generazione rubata”, popolazioni cui vennero recise definitivamente, con feroce pianificazione, radici e tradizioni identitarie di appartenenza. Erano destinate a incrementare l’economia australiana, fondata storicamente sul lavoro gratuito delle popolazioni delle Prime Nazioni e delle Isole del Pacifico, con conseguenze, a oggi, non ancora del tutto sanate.
Marilena Di Tursi
Berlino// fino al 9 luglio 2023
Daniel Boyd. Rainbow Serpent (Version)
GROPIUS BAU
Niederkirchnerstraße 7
https://www.berlinerfestspiele.de
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