Che cosa succede dopo la guerra: 15 artisti in mostra a Treviso
Il tema della guerra è all’ordine del giorno, invece ciò che avviene al termine del conflitto passa spesso sotto silenzio, nonostante la costruzione della pace sia un processo lungo e complesso. Fondazione Imago Mundi ha invitato gli artisti a riflettere su un argomento di grande attualità
Non si può certo dire che la mostra allestita negli ambienti delle Gallerie delle Prigioni di Treviso non sia di attualità. La guerra, ahinoi, è protagonista di tutti i telegiornali, conquista le prime pagine, se ne discute anche sui binari in attesa del treno. La Fondazione Imago Mundi ha coinvolto quindici artisti in un progetto che non vuole far riflettere solamente sul decorso degli eventi bellici, ma anche sulla profonda differenza che intercorre tra la conclusione degli scontri armati e l’instaurarsi di una vera e propria condizione di pace. La pace infatti è tale a patto che sia condivisa e talvolta ha bisogno di tempi lunghi, che non sempre portano a risultati concreti: lo testimonia, per fare un esempio clamoroso, la situazione dell’Afghanistan dove, nonostante il ritiro degli Stati Uniti e dei loro alleati, le violenze a oggi non sono certo finite.
GLI ARTISTI E LA GUERRA
L’incipit del percorso nell’ex carcere asburgico proietta subito i visitatori nell’attualità appena citata: è il fotoreporter ucraino Maxim Dondyuk a guidare i visitatori in un viaggio costituito da immagini crude, che si dispongono nei corridoi dell’ex carcere e nelle antiche celle ancora oggi dotate di possenti porte ferrate e spioncini. Le foto di Dondyuk, stampate su tessuto, documentano in primo luogo la rivolta di Euromaidan del 2013-14, per poi lasciare impronte durevoli, su lastre di pietra, con gli scatti del conflitto in corso tra Ucraina e Russia, e ancora ritrarre i luoghi abbandonati dopo i cruenti combattimenti. Al pianterreno si trovano inoltre le opere pittoriche dell’inglese Terry Atkinson e quelle dell’irlandese Richard Mosse con la sua ricerca fotografica relativa alla guerra in Congo.
LA MOSTRA ALLE GALLERIE DELLE PRIGIONI DI TREVISO
Saliti al primo piano della sede espositiva, è quasi commovente trovarsi di fronte all’unico esemplare ancora esistente della bandiera della pace fatta cucire nel 1961 da Aldo Capitini, fondatore del movimento non violento. Video, fotomontaggi, installazioni ‒ come quella di Alfredo Jaar, che con il neon rosso compone la frase di Gramsci “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono i mostri” ‒ si snocciolano gli uni accanto agli altri e indagano scenari diversi, da Tel Aviv (con Ran Slavin) alla guerra del Golfo (Harun Farocki), dalla Corea del Nord (Sim Chi Yin) alla Georgia (Eteri Chkauda). Da segnalare due progetti in particolare: il primo è costituito dalla serie di tappeti di guerra afghani prestati dalla Fondazione Servio Poggianella di Rovereto, realizzati grazie all’antica maestria dei maestri orientali i quali, annodando a mano i fili colorati, compongono immagini di armi e mezzi militari, trasformando un oggetto di uso comune in un potente mezzo di comunicazione e di riflessione. Il secondo è il lavoro del messicano Pedro Reyes, che si è fatto consegnare dal Ministero della difesa del suo Paese 6300 armi sequestrate ai narcotrafficanti e le ha tramutate in veri e propri strumenti musicali utilizzabili sia da musicisti sia da software. Una sorta di “requiem per le vittime”, come scrivono i curatori nella brochure che accompagna la mostra.
MARIO MERZ E JR
Il finale è affidato a due celebri esponenti dell’arte contemporanea. Di Mario Merz è l’igloo in argilla che riporta al neon una dichiarazione del generale vietnamita Giap. Di JR è invece un esemplare della serie Les Enfants d’Ouranos: nell’oscurità dello sfondo, si stagliano le silhouette dei bambini ritratti nei campi profughi della Grecia, del Rwanda, della Mauritania e della Colombia. Fuggono, correndo, verso un futuro migliore, o almeno questa è la speranza di tutti.
Marta Santacatterina
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