La pittura anti referenziale di Rita Ackermann a Lugano
La mostra al MASI mette in discussione lo spettatore. Mescolando figura e astrazione, che diventano indistinguibili, in un intrico di segni e pulsioni
Nella mostra al MASI di Rita Ackermann (Budapest, 1968; vive a New York), all’interesse e alla complessità in sé delle opere si somma il fascino di una sorta di espediente narrativo. La compresenza senza soluzione di continuità di opere del primo periodo (sommariamente definibili figurative) e di quello attuale (tendente all’astrazione) mette infatti in discussione lo spettatore, avviluppato in un intrico di segni più o meno referenziali.
La distinzione tra figura e astrazione diventa un criterio privo di senso, come ormai accade abitualmente nella ricerca pittorica contemporanea, ma soprattutto salta la tentazione di leggere il corpus dell’artista come un percorso evolutivo/teleologico. Una forte dose di entropia, di felice caos e indefinizione risulta essere un elemento espressivo fondante per la poetica della pittrice.
LE OPERE DI RITA ACKERMANN AL MASI
Nelle opere meno recenti, intraprese dopo il trasferimento a New York, figure femminili di chiara provenienza pop diventano eroine di un’esplorazione allo stesso tempo interiore e sociale. Più dei loro gesti, delle loro posture e delle loro espressioni, conta il fatto che i loro contorni si sfrangiano e i loro corpi diventano così linee, punti di congiunzione traumatica con il loro ambiente.
Libertarie oppure succubi, incerte adolescenti oppure donne ricche di una saggezza quasi metafisica, le figure femminili sono infiniti alter ego dell’artista, che sembra mettere in comune la propria esperienza di vita per delineare apologhi esistenziali validi per tutti. La saletta centrale dedicata a disegni e collage funziona come una sorta di antro dove le creature, ancora in forma di appunti visivi, iniziano a prendere forma e vita per poi proliferare nei quadri.
LA MOSTRA DI ACKERMANN A LUGANO
Nella produzione più recente, in linea con un’estetica oggi diffusa eppure autonoma, la figura diventa elemento sottinteso, solo parzialmente visibile, come una stratificazione geologica che si trasforma in colore, segno, materia. La contemporaneità dell’espressione riesce a inglobare in modo non didascalico riferimenti alla storia dell’arte, atmosfere che sembra di riconoscere nella loro natura pacificante ma che finiscono per essere ribaltate dall’interno e diventano concrezioni astratte, allo stesso tempo tattili e ottiche, gestuali e “virtuali”. Una forma di espressione libera e istintiva convive alla perfezione con il lavorio ragionato, con la smentita e il ripensamento (una pulsionale perdita di senso che passa per la cancellatura e la sovrapposizione).
Un ulteriore cambiamento radicale sembra intervenire negli ultimissimi lavori, i tre inediti dedicati al tema della guerra (senza ulteriori specifiche): monumentali dipinti panoramici nei quali il vuoto, l’assenza, il negativo dell’immagine spadroneggiano pur nel consistente rovello di linee: visioni di un deserto contemporaneo che sembra paradossalmente e spericolatamente speranzoso.
Stefano Castelli
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