Il senso della scultura secondo Giuseppe Gabellone a Torino
Video e fotografia sono gli strumenti scelti dall’artista pugliese per affrontare il linguaggio della scultura nella mostra alla GAM
Dopo la mostra dedicata a Michael Snow, la videoteca della GAM di Torino continua a presentare al pubblico opere recentemente acquisite in collaborazione con la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT e divenute oramai emblematiche per la storia della videoarte. A confrontarsi questa volta con il project space del museo è Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973), autore di un lavoro iconico sia per la sua poetica sia per la sua carriera, il video del 1993 Km 2,6.
LA MOSTRA DI GIUSEPPE GABELLONE ALLA GAM DI TORINO
Realizzato quando era ancora uno studente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, Km 2,6 definisce sin da subito l’intenzione di Gabellone di mettere in discussione il concetto stesso di scultura coniugando altri linguaggi artistici come il video e l’azione performativa. Ciò che viene mostrato in trenta minuti di girato è infatti l’impetuoso avvolgimento con numerosi rotoli di scotch da imballaggio di tutti gli oggetti, le stanze e le superfici presenti nella sua casa in Puglia: un gesto carico di quell’energia giovanile e primordiale che si scaglia dapprima su figure archetipiche come la famiglia e l’ambiente domestico per poi invadere anche gli alberi e il cancello che delimitano lo spazio esterno dell’abitazione. È un suono repentino e snervante quello che viene continuamente riprodotto dallo srotolamento dello scotch e che si propaga per tutto lo spazio espositivo, un rumore estemporaneo che però non lascia indifferenti, così come la stessa colla del nastro che inevitabilmente lascia delle tracce difficili da eliminare sugli oggetti con cui entra in contatto. Si tratta di “posizionare la scultura in uno spazio mediano di riflessione tra quella che è la tradizione che tutti noi conosciamo della scultura e tutte le possibilità, tutte le aperture possibili con cui la scultura può entrare in dialogo”, sottolinea la curatrice della mostra, Elena Volpato.
Il risultato finale è dunque un’opera ibrida che tramuta un happening in una forma definita e concreta immortalata a sua volta da una videocamera, dispositivo tecnologico – per non dire tautologico – che ritorna in maniera sottile all’interno dello stesso video. Come ricorda Volpato: “Quel nastro è chiaramente uno specchio del nastro magnetico, del nastro con cui Giuseppe stava registrando la propria azione, cioè uno specchiamento tra un valore scultoreo e uno temporale per cui quei km 2,6 corrispondono ai minuti dell’azione”. Per quanto possa sembrare in qualche modo “datato”, Km 2,6 riesce a volgere lo sguardo anche sul nostro tempo, portandoci inevitabilmente a pensare come oggi azioni similmente “irrazionali” o di matrice dadaista vengano consultate h24 sotto forma di meme divulgati e performati attraverso piattaforme social come Instagram o TikTok.
GIUSEPPE GABELLONE E LA FOTOGRAFIA
Oltre al video del ’93, la mostra include anche un corpus di otto stampe digitali che accennano a un discorso intrigante sull’evoluzione del concetto di fotografia nel corso del tempo: una ricerca meticolosa sul ruolo statico dell’immagine che porta il mezzo fotografico a svincolarsi sia da un certo tipo di supporti fisici sia dalla cristallizzazione del tempo. All’interno della serie fotografica Senza titolo, del 2009, si è infatti invitati a percepire un agente atmosferico come il vento al pari di uno scalpello, una sorta di strumento etereo che restituisce plasticità a un elemento statico per antonomasia come la stampa fotografica. Si tratta di fotografie di fotografie, di immagini di sculture formate a loro volta da immagini di paesaggi che contengono sculture che contengono fotografie e così via: un processo infinito che determina quella speculazione costante tra dinamismo e stasi, gestualità e fissazione nel tempo che ha forgiato l’intera ricerca di Giuseppe Gabellone.
Valerio Veneruso
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