Arte in relazione. Una conversazione tra Anna Detheridge e Alberto Garutti
Dopo la recente scomparsa dell’artista, pubblichiamo uno scambio di pensieri inedito tra la critica d’arte e giornalista Anna Detheridge e Alberto Garutti, avviata nel 2013 e ripresa il 29 agosto 2021
La sera di sabato 24 giugno 2023 Alberto Garutti (Galbiate, 1948 – 2023) ha finito di soffrire, sconfitto nel corpo da una lunga malattia ma non certo nell’anima. La sua determinazione e la sua intelligenza ci accompagneranno negli anni, come anche la sua capacità di guardar oltre i confini delle discipline e i comodi recinti dell’arte contemporanea.
In un mondo sempre più dominato dalle biopolitica, l’arte come esperienza, come sentimento e incontro con l’altro diventa fondamentale per ristabilire un rapporto equilibrato in primo luogo con noi stessi. Nato nel 1948, architetto di professione, ma docente e maestro per vocazione di una generazione di artisti oggi 40-50enni tra i più interessanti, Garutti ha saputo raccogliere l’eredità della generazione prima della sua, dell’Arte Povera, del minimalismo e dell’arte concettuale e donare ai più giovani, attraverso un autentico processo maieutico, una sicurezza e il senso di una tradizione tutta italiana, un’arte mai soltanto formale ma pienamente compiuta e umana.
Le sue opere sono un invito a fermarci un attimo per riflettere su noi stessi, su dove ci portano i nostri passi, sul significato profondo delle cose. Come mi disse una volta un anziano prete operaio, quando vogliamo essere tecnici parliamo pure di relazione, quando si parla in generale si può anche parlare di amore.
“Ogni artista realizza le proprie opere in relazione alla propria personalità, al proprio bagaglio culturale e forse attraverso l’Arte è possibile produrre nuove realtà portatrici di visioni e domande inedite. L’Arte, nella sua accezione più classica, produce sempre un progetto positivo. Ci ha sempre insegnato un’attitudine, un modo per avvicinarci al mondo, per riuscire a capirlo meglio. Insomma l’Arte è un’esperienza di conoscenza straordinaria”
Questa affermazione, raccolta durante una conversazione di quindici anni fa, è ancora oggi il leitmotiv, il filo conduttore del lavoro di Alberto Garutti. Il testo che segue integra quelle riflessioni con le nuove considerazioni dell’artista sul significato di fare arte nel complesso mondo globale post-Covid del 2021.
CONVERSAZIONE CON ALBERTO GARUTTI
A.G. Io credo che lo sguardo dell’arte sia critico, etico e poetico. Critico poiché analizza il mondo, etico perché si confronta con gli altri e poetico perché se non c’è un “sentire” che ha a che fare con l’emotività, l’opera non esiste. Non è possibile spiegarlo: il senso del poetico di un’opera sta appunto nella sua stessa indecifrabilità. Maurice Blanchot diceva “ciò che più conta nell’arte è la misteriosità dell’evento visivo”. Difficile perciò insegnare a fare un’opera d’arte, ed è quasi ingenuo ritenere che sia possibile farlo. Io in tanti anni di insegnamento in accademia ho sempre cercato di allenare gli studenti alla sensibilità nel guardare il mondo, le cose, se stessi, gli altri… Appunto, come dicevo, l’Arte è un’esperienza conoscitiva. Allenare il muscolo della sensibilità − un po’ atrofizzato − è un esercizio fondamentale. I pedagoghi affermano che investire sulla sensibilità aiuti lo sviluppo dell’intelligenza razionale. Una volta mi fecero un’intervista chiedendomi di dare un consiglio al Ministro dell’Università: dissi che mi sarebbe piaciuto che venissero attivati dei corsi di educazione emotiva in tutte le scuole di ordine e grado.
A.D. Quale importanza ha nei tuoi progetti la “Relazione”? È cambiata la tua strategia negli anni o costituisce ancora oggi una sorta di “cifra” riconoscibile, ciò che ai tempi dell’Arte Povera avrebbero chiamato ancora “stile”? Hai sempre affermato che il tuo approccio alla relazione con lo spettatore, quando realizzi opere per la sfera pubblica, è una sorta di stratagemma machiavellico che usi per farti raccontare le cose, per poter contestualizzare la tua opera.
A.G. Riguardo alle opere pubbliche devo attivare strategie machiavelliche, il che significa cercare di capire e conoscere − attraverso l’incontro con tante persone − il territorio e le sue storie. Un’opera pubblica deve essere capace di radicarsi nel territorio, altrimenti rischia di apparire come un corpo estraneo. È importantissimo fare in modo che l’opera possa essere compresa, capita dai cittadini, che possa toccare la loro sensibilità. Certo è necessario che si riesca a mantenere un profilo linguistico molto alto, altrimenti si potrebbe rischiare di scivolare in una forma di demagogia populista, il che ucciderebbe l’opera stessa.
Oggi non è più possibile pensare all’Arte come attività autoreferenziale. A partire dagli Anni Novanta con la Guerra del Golfo, l’avvento di Internet, l’attacco alle Torri Gemelle, i conflitti internazionali, i cambiamenti climatici e ancor più chiaramente con la pandemia di Covid-19, ci si è ritrovati tutti a far parte di un meccanismo globale. Il sentirsi ubiqui − siamo tutti connessi e interdipendenti − è spaesante, di conseguenza la nostra psicologia nei confronti del mondo cambia. L’Arte deve assumersi nuove responsabilità.
ALBERTO GARUTTI E L’OPERA CRITICA, ETICA E POETICA
A.D. Talvolta il tuo lavoro è stato confuso o accusato di buoni sentimenti, di essere politically correct e dunque di inefficacia sul piano dell’opera?
A.G. Come dicevo precedentemente l’opera deve essere critica, etica e poetica. D’altra parte l’opera è tale solo quando la rendi pubblica, quando è capace di dialogare con coloro che la guardano. Nel momento della progettazione dell’opera pubblica mi sono sempre posto delle domande sulle mie responsabilità di artista, ho sentito sempre necessario scendere dal piedistallo − che retoricamente il sistema dell’arte ci mette sotto ai piedi − per “attivarmi” al servizio della città e dei cittadini.
Per farti un esempio potrei parlare delle incisioni sulle pietre, dei volantini, delle campagne pubblicitarie, dell’utilizzo della free press, i giornali distribuiti gratuitamente, di questi dispositivi che io chiamo didascalie. Sono dispositivi-attivatori dell’opera che parlano del presente, del qui e ora, che attivano appunto l’opera in quel momento. Io non voglio, attraverso questa modalità, spiegare l’opera d’arte e il suo pensiero, ma semplicemente raccontare allo spettatore qual è il suo funzionamento. La didascalia è, così, parte integrante del lavoro ed ha anche un ruolo politico, si tratta di una presa di posizione rispetto alle modalità con cui in genere si fanno le opere pubbliche. Lo spettatore, se è interessato, può approfondire ulteriormente e questo comporta un impegno, una intenzione e responsabilità. L’arte è un lavoro specialistico, necessita di uno sforzo per la sua comprensione. Se negli spazi urbani l’artista deve, a mio avviso, scendere dal piedistallo per mettersi al servizio della città, al contrario nel museo che è un luogo specialistico, è lo spettatore stesso ad impegnarsi per cercare l’opera. Al PAC (Spazi atti/Fitting spaces, a cura di R. Pinto e J. Hubert Martin, PAC, Milano 2004), per esempio, gli spettatori che entravano nello spazio museale non potevano accorgersi che le sedie e le panche fosforescenti dei custodi erano delle opere (Che cosa succede nelle stanze quando le persone se ne vanno?). Gli arredi presenti nello spazio espositivo, laccati con uno smalto fosforescente, una volta spente le luci dopo la chiusura dello spazio, si illuminavano. In questo modo, nel corso degli orari di visita, gli arredi in questione si mimetizzavano tanto da non essere riconoscibili in quanto opere, e solo nell’eventuale documentazione fotografica era possibile vederli illuminati. Alterando la percezione che lo spettatore ha dell’opera – essa poteva essere soltanto immaginata – io chiedevo al pubblico di riporre fiducia in essa e di sforzarsi pazientemente di cercarla, con la consapevolezza che questa si realizza nell’incontro con lo sguardo dello spettatore. Quest’opera, che è apparentemente sentimentale – perché se c’è un senso poetico, sta nell’immaginare gli oggetti comuni che si illuminano quando noi non ci siamo − in realtà contiene un passaggio teorico che per me è molto importante. In una società sempre più ubiqua, è come se il museo perdesse la sua solidità e diventasse liquido, come se le opere volessero uscirne per tornare alla realtà della vita, rischiando così di perdere il senso dell’opera stessa. L’orinatoio di Duchamp o una combustione di Burri che cosa potrebbero diventare fuori dal museo? Io dico che per far sì che l’opera fuori dal museo mantenga la sua “aura”, noi tutti spettatori − anche l’artista che è il primo vero spettatore − dobbiamo trasformarci in piccoli “musei” ambulanti, capaci di guardare la realtà e le cose, in modo tale da caricarle di artisticità.
A.D. Alcune tue opere, come Orizzonti, potrebbero essere definite “minimaliste”, rappresentano una transizione verso una forma d’arte più concettuale, che allo stesso tempo coinvolge lo spettatore o il pubblico. Tu fai parte di una generazione di mezzo, tra i protagonisti dell’Arte Povera e quella “postmoderna” della Transavanguardia. In mezzo a queste due “tendenze” hai saputo forgiare una tua poetica molto personale ma non certo in conformità con uno “stile”. Come è avvenuta questa evoluzione? Qual è il ruolo della relazione con l’altro in questa trasformazione?
A.G. Nel corso degli Anni Ottanta ho attraversato una crisi fortissima, 4 o 5 anni davvero difficili. Molti dei miei coetanei hanno seguito le tendenze della Transavanguardia, io ho dovuto ricominciare da capo con qualche ammaccatura e dieci anni in più. Il mio rapporto con le gallerie era sempre più svogliato. Ho sentito il bisogno in quel momento storico di ri-eticizzare gli approcci metodologici del mio lavoro.
Nel ’94 mi chiamò Antonella Soldaini, curatrice incaricata dal sindaco di Peccioli di invitare degli artisti per realizzare delle opere nella piccola cittadina toscana. Quando feci il primo sopralluogo, il pensiero che mi accompagnava non era quello di trovare una bella strada o piazza affinché la mia opera avesse la migliore visibilità; volevo piuttosto riuscire a fare un’opera che fosse capace di toccare la sensibilità dei cittadini, che avesse un impatto ambientale minimo e che non venisse criticata come avveniva spesso in quel periodo. Non sopportavo l’idea che un paio di pensionati su una panchina, dandosi una gomitata, avessero potuto dire “guarda dove vanno i nostri soldi”. Decisi, quindi, durante i miei sopralluoghi, di incontrare alcuni cittadini nel piccolo bar del paese. Dopo molti confronti, scoprii un piccolo teatro abbandonato. Decisi allora di mettere a disposizione tutto il mio budget per ristrutturarlo. Grande scetticismo da parte di tutti, ma una volta realizzato questo lavoro segnò un passaggio importantissimo nel mio percorso, diventò un manifesto metodologico anche nella progettazione degli anni successivi. Significava, infatti, allora come adesso, lavorare in maniera politica e non fare un’opera politica.
LE OPERE DI ALBERTO GARUTTI
A.D. Hai realizzato diverse opere − alcune delle più poetiche e sorprendenti − in luoghi rurali o agricoli come a Villa Manin, in un parco con alberi secolari, e nella tenuta di Genagricola di Ca’ Corniani a Caorle in provincia di Venezia.
A.G. Nel parco settecentesco della bellissima Villa Manin nel 2005, su invito di Francesco Bonami, è stata realizzata una recinzione alta, che non permette ad alcuno di entrare e dove dunque crescono erbacce, sterpi, alberi, mentre al di fuori il parco è tenuto alla perfezione e il prato è curato. Volevo che il senso del lavoro indicasse che anche alla natura noi dobbiamo dare una grande libertà, e dovremmo prestare attenzione. Purtroppo è successo il contrario, come − inutile dire − stiamo vedendo. Ricordo anche che il giorno dell’inaugurazione ho avuto un piccolo regalo dagli insetti: tutti i grilli si erano rifugiati lì dentro, in questo luogo nel quale nemmeno i giardinieri potevano entrare. Il titolo dell’opera è Come se la natura avesse lasciato fuori gli esseri umani.
In tutte le mie opere pubbliche ho sempre desiderato prestare attenzione agli altri, perché gli altri siamo noi e dunque anche nei confronti della natura ho avuto il medesimo atteggiamento.
Quando realizzai il lavoro per la nuova sede di Tiscali a Cagliari, con la curatela di Gail Cochrane, il committente, Renato Soru, aveva espresso il desiderio di inserire una fontana nel campus dell’azienda. A me sembrava un po’ assurda una fontana in un territorio in cui l’acqua scarseggia. Immaginai dunque un’opera che mantenesse le proprietà fondanti della tipologia classica della “fontana” – la costruzione di meraviglia, la produzione di un piccolo scenario di geometrie d’acqua – ma che potesse allo stesso tempo essere utile e “prendersi cura” della natura circostante. Feci produrre quindi degli irrigatori. In alcuni momenti della giornata – due o tre volte al giorno a secondo dei piani del giardiniere dell’azienda – i bracci di questi oggetti in metallo da me disegnati diffondevano acqua producendo uno spettacolo visivo della durata di alcuni minuti; ma con una funzione precisa, quella di irrigare il territorio circostante.
Nel 2004, in occasione della mostra Sound+Vision curata da Janus e Associazione Culturale Zerynthia ad Anversa, ho scaricato una grande quantità di mangime per uccelli sul tetto piano di un edificio industriale, adiacente a un grande spazio abbandonato da decenni che la committenza aveva scelto per ospitare le opere d’arte. Ho poi sostituito con una lastra di vetro la porta che dava accesso al tetto, affinché lo spettatore potesse osservare gli uccelli che, richiamati dal mangime, erano tornati ad “abitare” l’edificio. Se da un lato questo lavoro rappresentava un gesto di attenzione nei confronti degli uccelli, a cui quel luogo era stato improvvisamente precluso dall’arrivo di una decina di artisti con le loro opere, dall’altra esprimeva un atteggiamento critico nei confronti del sistema dell’arte, che spesso non tiene conto di ciò che lo circonda.
Per Genagricola, a Ca’ Corniani, ho realizzato, tra il 2017 e il 2019, tre grandi opere che sono diventate le soglie di accesso e di benvenuto alla tenuta. Si tratta di tre lavori − inseriti nell’ambito di un complesso progetto di valorizzazione paesaggistica − volutamente differenti tra loro perché progettati in relazione a porzioni specifiche del paesaggio ma accomunati da un unico approccio concettuale e metodologico. Le opere che separano il territorio veneto dall’area di Ca’ Corniani sono state concepite sia come punti di riferimento visivi e riconoscibili su scala paesaggistica, sia come oggetti in grado di raccontare una storia che appartiene all’identità del luogo e dell’azienda agricola. Ogni Soglia parla di Ca’ Corniani, del suo presente, e immagina il suo futuro. In un testo critico sul mio lavoro, Maurizio Bortolotti, affermava che il paesaggio italiano, da sempre molto implicato con l’arte, viene utilizzato dagli artisti come uno sfondo. Io, al contrario, sono sempre entrato nel paesaggio, relazionandomi ad esso e alle sue storie di vita e questa modalità potrebbe essere considerata in un certo senso “performatica”.
A.D. Anche se il filo conduttore di tutti i tuoi lavori sta fondamentalmente nella relazione con le persone, la forma cambia secondo il processo che vuoi mettere in atto, l’obiettivo che ti sei prefissato?
A.G. Io non so se pensare che la relazione con le persone sia il filo conduttore. È una modalità che mi consente di entrare nel territorio, di conoscerlo il più possibile; mi dà la possibilità di produrre un’opera che non sia un corpo estraneo e che possa radicarsi davvero nel contesto. Quindi è inevitabile che la forma delle mie opere sia ogni volta diversa, ma con una metodologia comune che diventa parte integrante dell’opera, perché è la struttura portante del lavoro. In questo senso – anche se a un primo sguardo può non essere percepito – tutte le mie opere si assomigliano.
Voglio citare l’opera Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora.
Si tratta di un lavoro concepito proprio come un’opera-didascalia. È una frase senza autore che il passante può intercettare per caso, camminando frettolosamente tra i corridoi di una stazione, di un aeroporto o di qualunque altro luogo. Parte integrante della superficie della città, incisa su una pietra installata in modo complanare alla pavimentazione del luogo, l’opera è un esempio di “didascalia pura” che “mette in moto” il lavoro invitando lo spettatore a pensare e immaginare la fitta rete di relazioni che ognuno di noi attiva durante la propria esistenza, e svela così, all’improvviso, la complessità del proprio vissuto e il valore dell’energia cinetica, potenziale, racchiusa nel nostro percorso di vita. Quest’opera-didascalia, ancora una volta, è un’affermazione precisa: è un oggetto anonimo che parla il linguaggio della città, delle sue pietre, delle sue superfici e contemporaneamente è un dispositivo in grado di produrre immagini. La didascalia si rivela, così, come parte del discorso politico – la didascalia come piattaforma di distribuzione dell’opera d’arte che potrebbe anche non essere riconosciuta come tale – e contemporaneamente di quello figurativo dell’opera. È un utensile, una “dichiarazione esplicita” di quell’andare verso gli spettatori che sento come destinatari di ogni mio intervento pubblico.
Anna Detheridge
Intervista pubblicata nel libro Arte in Relazione, quaderno di Connecting Cultures
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