Anna Franceschini alla Triennale. Il concerto delle macchine gonfiabili
Si rifà a un modo di dire anglosassone che si può tradurre con l'espressione “pallone gonfiato” il titolo dell’installazione di Anna Franceschini per Triennale. Capiamo perché
Un inaspettato ensemble da camera composto da sette stiratrici (le dressmen, macchine che attraverso l’aria calda emessa da una serpentina stirano gli indumenti), qui nel ruolo di pupazzi animati: nelle intenzioni dell’artista non vogliono intimorire, ma potrebbero sfuggire al controllo umano e prendere il sopravvento. L’installazione All Those Stuffed Shirts di Anna Franceschini (Pavia, 1979), curata da Damiano Gullì per Triennale Milano, ha una genesi lontana: dodici anni fa, l’artista filmò le stesse macchine in un luogo di produzione fuori Milano; le rimase il desiderio di trasformarle in corpi scultorei, coordinati in una danza.
INTERVISTA ALL’ARTISTA ANNA FRANCESCHINI
L’elemento sonoro è fondamentale in questo lavoro, puoi parlarci della sua gestazione?
Ho deciso di coinvolgere il mio amico Matteo Nasini per creare una composizione ispirata dal fonosimbolismo di Pierino e il lupo di Prokof’ev. La mia è una partitura ritmica, è come suonare un tamburo che puoi modulare secondo la frequenza di battito. Praticamente, l’effetto è ottenuto con software che collegano le stiratrici a un tastierino fisico e virtuale, creando interventi di voci soliste e corali. Le figure si animano, si alzano e si abbassano, sbuffano.
È un’installazione ibrida…
Sta tra coreografia, balletto, un concerto per strumenti alla John Cage. Potrei riprogrammarla con una partitura diversa, aumentare gli strumenti. È una composizione binaria on/off, ma si possono creare tantissime combinazioni.
Perché hai scelto proprio queste macchine?
È difficile empatizzare con una tranciatrice a controllo numerico, ma con queste macchine antropomorfe siamo portati a farlo. Sono macchine decrepite, diventeranno obsolete, saranno rimpiazzate dalle intelligenze artificiali, è meccanica degli Anni Settanta: non sono più glamour e all’avanguardia, nonostante svolgano bene il loro compito. È come se fossero indiani nelle riserve, donne e bambini da proteggere in tempo di guerra.
NEL MONDO ANIMATO DELLE MACCHINE
Come hai immaginato questa installazione rispetto alle precedenti?
È stata la diretta prosecuzione dei miei lavori dal 2012. Già facevo film e documentari sui processi di produzione, sui luna park, sulle fabbriche dove testano l’idoneità dei giocattoli. C’è sempre stata grande attenzione alla materialità, all’oggetto, all’animazione.
Come nel cinema, che hai studiato?
Sì, mi interessava far diventare attori e attrici degli oggetti inermi. Passare alla scultura cinetica e all’installazione è stato qualcosa di organico: è un modo di fare cinema sperimentale, al di fuori del suo dispositivo canonico.
Guardando la tua installazione, vengono in mente i tubi gonfiabili che si incontrano a bordo strada…
Mi interessa il mondo della gonfiabilità, gli Sky Dancers sono nati per le Olimpiadi di Atlanta, hanno poi avuto una parabola discendente come segnalatori di shopping-mall, parcheggi, grandi concessionarie in America. In alcuni Stati sono banditi, perché distraevano i guidatori e causavano incidenti. Da divinità dell’aria sono diventati spaventapasseri nei campi di mirtilli, subendo una “caduta lavorativa e sindacale”.
Insomma, l’oggetto prende il sopravvento e conferisce una personalità al personaggio.
L’espressività nell’industria è un accidente sorprendente, penso alle catene da montaggio, alle parti antropomorfe imbullonate. Nella mia installazione Villa Straylight (2019) i motori, con le parrucche bionde, sembrano sfoggiare degli occhietti.
Giorgia Basili
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