Lo standard “variabile” di Emilio Prini a Milano
Formule matematiche, rapporti architettonici e poesia visiva si fondono nei disegni realizzati con la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22 dall’artista piemontese, in mostra allo spazio Ordet
“Fontana-taglio/buco/colorazione ECC. Io-standard /non taglio/non colorazione (intero). È topologia?”. Queste parole, scritte con un inconfondibile typewriter font, compongono il quadro di una mostra dall’alto spessore intellettuale nello spazio postindustriale della galleria Ordet. Al di là dell’ermetismo di una figura non ancora pienamente sviscerata dalla critica, Emilio Prini (Stresa, 1943 – Roma, 2016) ci restituisce il profilo poliedrico e inafferrabile di un artista impegnato nella definizione di qualcosa di indefinibile: il vuoto, uno standard, la presenza umana nello spazio, l’arte. Comparso nelle collettive fondamentali dell’Arte Povera, Prini dà vita al suo “standard” nel 1967, quando installa una barra di alluminio di sei metri e mezzo presso la galleria milanese La Bertesca.
LA POETICA DI EMILIO PRINI
L’opera ha il sapore di un modulo, ma di un canone non convenzionale che adegua la sua conformazione allo spazio contenitore, secondo l’avviso dell’artista. Perché ciò che Prini dichiara è che lo spazio contenitore dell’opera può variare. Un truismo sconcertante se non ci si fermasse a vagliare il peso che Prini dà al non detto delle sue dichiarazioni. Un’opera tanto più interessante se rapportata al concetto del site specific: in un momento in cui gli artisti creano opere appositamente per l’ambiente ospitante, Prini realizza un’opera che si modella sullo spazio vitale che può ottenere di volta in volta. Nonostante la sua presunta variabilità, Prini la pone come uno “standard”, un concetto che insieme alla sua nemesi – il non standard – percorre trasversalmente la sua poetica innescando evocative contraddizioni. Qual è la specificità del luogo? Quale quella del fare arte? Nell’arco dei pochi anni della sua attività artistica, tra la fine degli Anni Sessanta e la metà dei Settanta, Prini ha affermato e sconvolto le sue affermazioni, ha riadattato le opere fino all’ultimo. Prini rimaneggia la forma e i codici linguistici attorno alle sue opere, ne cambia i titoli e talvolta la consistenza, come un musicista intento a riarrangiare le proprie melodie. Una fine operazione “metaconcettuale” che si avvale della sua stessa regola: “Non vale una regola fissa”.
LA MOSTRA DI EMILIO PRINI DA SPAZIO ORDET
Prini gioca con il vuoto e la rarefazione, convertendo lo spazio fisico in spazio mentale, trasformando le sue opere in segni. Nella personale alla galleria Ordet il corpus di opere presentato ha una sua valenza estetica: i caratteri della macchina da scrivere si avvicendano in messaggi che risentono dell’influenza della Poesia Visiva, ma anche in disegni tecnici di tabelle e planimetrie che vivono in relazione allo “standard”, dichiarando novelle proporzioni prospettiche ed espressioni impossibili. Nel percorso espositivo tavole di truciolato e di formica laccata si ergono come soglie – immobili nella loro ottusità – che fronteggiandoci ci guardano e ri-guardano. In questi “standard”, costanti e variabili sono affidate a una sapienza remota a cui non ci è dato attingere.
Molte delle affermazioni dell’artista, in forma grafica o come annotazioni autografe, sono proporzionali allo spazio mentale che decidiamo di accordargli; hanno quindi la stessa funzione dell’asta di acciaio – il primo “standard” – che spinge ai lati della stanza per farsi spazio. E ivi permane. Non è il senso a interessare, ma il far collimare il significato con il significante, come lo fanno i caratteri tipografici creati da Olivetti sullo spazio standard del foglio A4.
Martina Lolli
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