Storia e futuro della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Intervista a Chiara Bertola
Lo storico palazzo veneziano dei Querini è diventato luogo di conservazione e relazione, rinascendo ogni volta diverso attraverso le visioni degli artisti che l’hanno vissuto. Un libro racconta questa storia. Ma il futuro?
Dal 1997 al 2022, Chiara Bertola ha curato, per la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, i progetti site-specific di arte contemporanea. Il suo libro, Conservare il futuro, ne raccoglie l’esperienza, sistematizzandola in un volume che risulta un manuale d’uso, un metodo di lavoro rigoroso e illuminante per operare nella complessa relazione tra passato e presente, in luoghi carichi di storia e pertanto bisognosi di dialoghi coerenti se affidati agli sguardi rivitalizzanti degli artisti. Ne parliamo con l’autrice.
Intervista a Chiara Bertola
Conservare il futuro è stato un progetto lungo e articolato e ora è anche un libro dove emerge con chiarezza l’idea alla base del tuo lavoro, cioè il ribaltamento della logica “si può fare con tutto” in “si può fare con niente”. Significa fare i conti con le limitazioni imposte dalla peculiarità dei luoghi piuttosto che coglierne genericamente le opportunità. Come?
Il libro è nato proprio per fare il punto, per capire quello che è stato fatto, per metterlo insieme, per attraversarlo secondo un ordine, per comprendere gli strumenti che mi sono data e per guardarlo in prospettiva. Un tempo lungo in cui ho potuto osservare le metamorfosi e le rinascite della struttura attraverso le differenti visioni degli artisti che l’hanno resa ogni volta un luogo nuovo, superando i condizionamenti, occupando anche parti secondarie dell’edificio, trovando soluzioni inaspettate ma sempre in dialogo. Questo libro è l’occasione per riunire interrogativi, scoperte e pensieri elaborati prima che l’attività della cura trovasse una casa.
Cosa è emerso da questa intensa collaborazione che tiene insieme 30 progetti distribuiti in 25 anni di lavoro?
Devo premettere che la Querini Stampalia non è un posto facile e non nasce come museo di arte contemporanea. È un prestigioso palazzo veneziano del XVI secolo, la cui storia coincide con la vicenda della nobile famiglia veneziana, i Querini, che in questo edificio hanno vissuto per generazioni, accumulando, al suo interno, collezioni di oggetti, libri e soprattutto opere d’arte. Ho operato fidandomi del mio istinto ma soprattutto cercando sensibilità che si lasciassero incuriosire dalla Fondazione e che fossero disposti a misurarsi con essa. A meno che non si entri d’imperio, il rapporto con la Querini è complesso perché esiste un secondo piano, quello della collezione, molto carico e un terzo, vuoto, che possiamo considerare un white cube, quindi un luogo espositivo classico con una planimetria identica, un vuoto speculare al pieno sottostante. Ogni artista si è inserito nella collezione comportandosi da intruso, da straniero e, come succede in questi casi, ha stabilito relazioni sociali, estetiche, etiche che sono cambiate di volta in volta, consentendo di guardare ciò che è noto in maniera diversa, di usare il passato per riportarlo nel presente in maniera viva.
La Fondazione Querini Stampalia di Venezia, gli artisti, la rigenerazione
Sei entrata in Querini nel 1992 come schedatrice bibliografica e poi, durante la direzione di Giorgio Busetto, nel 1997, hai assunto il ruolo di curatrice d’arte contemporanea, portando con te la lezione di Giuseppe Mazzariol che, alla fine degli Anni Cinquanta, chiama Carlo Scarpa al piano terra dell’edificio, per creare l’attuale spazio espositivo e il giardino. Come dici nel libro, entrambi ti hanno lasciato un’eredità, soprattutto in merito a una differente prospettiva sul passato. In che modo?
Il titolo del testo Conservare il futuro credo sia riassuntivo di questo approccio. Sono convinta che, in una fondazione come la Querini, la conservazione sia un obiettivo primario ma questo non significa che l’approccio debba essere solo di catalogazione e di studio. Con l’apertura agli artisti contemporanei si sono moltiplicate le chiavi di lettura, rendendo vivo il passato e, in alcuni casi, svelandolo o guardandolo per la prima volta. È questa la lezione che ho imparato: non nasciamo vuoti, il passato non è mai definito e chiuso in una forma, può rinascere portando alla luce quanto è ancora latente e difficile da mettere a fuoco e può essere, per gli artisti, un’occasione per ripensare il proprio lavoro.
Parli di eventi a bassa visibilità, controcorrente rispetto alla facile spettacolarità dei nostri tempi: opere che invitano all’attenzione, alla cura, all’esercizio dell’ascolto, del silenzio. Vuoi fare qualche esempio?
Penserei all’aspetto drammatico, spaventoso e pericoloso dell’arte di Mona Hatoum con le sue bombe in vetro che, posizionate nelle bacheche settecentesche, cambiavano di senso con una drammaticità meno accentuata rispetto alla consueta presentazione sul tavolo di alluminio, tipo barella di guerra. Ricorderei il progetto Where is our place di Ilya & Emilia Kabakov che metteva in connessione presente, passato e futuro in una relazione che gli artisti hanno trovato nella struttura stessa della Querini, nel suo sovrapporsi di piani, sia spaziali che temporali. O, ancora, Kiki Smith con Homespun Tales, che rianimava le figure femminili della Querini in una trentina di piccole sculture in porcellana disposte sul grande tavolo nel Portego.
Ma il futuro dove porta?
Questa esperienza di lavoro può generare un modello esportabile o costituisce un unicum non replicabile?
Nel libro parlo di un metodo italiano per lavorare sul contemporaneo. In tutti questi luoghi pieni di passato, nelle città d’arte come nei piccoli centri, possiamo offrire qualcosa in più agli artisti. Non si tratta di occupare degli spazi o di usare le opere contemporanee come forme di decorazione ma di trasformare quello che si trova in qualcosa di nuovo. L’Italia potrebbe, per necessità e per la sua storia, diventare propositiva nell’affrontare il contemporaneo. Sicuramente il museo d’arte contemporanea ha il suo ruolo ma una cosa non esclude l’altra. Prendiamo il locale e facciamolo rivivere perché, come dimostra la mia esperienza, c’è una positiva risposta da parte degli artisti.
Quale sarà il futuro della Fondazione considerato che, proprio in concomitanza con l’uscita del volume, quest’anno il progetto si è interrotto?
Sarebbe auspicabile continuare in questa direzione che è una sorta di antidoto all’appiattimento, alla trasformazione dei luoghi in b&b della cultura. Una fondazione deve fare un lavoro culturale e credo che in questi anni quanto fatto sia stato appropriato e corretto e inoltre abbia favorito l’inserimento della Querini nei circuiti del contemporaneo più apprezzati di tutta Venezia. Bisogna essere precisi, bisogna proteggere i luoghi per scongiurare l’effetto di riempimento fine a se stesso. Gli artisti coinvolti nel progetto si sono nutriti senza fare niente di velleitario.
Marilena Di Tursi
Chiara Bertola – Conservare il futuro
Bruno, Venezia 2023
Pagg.280, € 20
ISBN: 8899058563
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