Hackerare la serigrafia, rielaborare il quotidiano. Intervista a Lorenza Longhi
Dalla serigrafia all’installazione, tra riferimenti all’architettura, alla pubblicità, all’interior design, sempre in una chiave sperimentale. Lorenza Longhi ha appena presentato il suo primo murale site specific sul rooftop di Wellio Duomo, per il programma dedicato all’arte contemporanea di Covivio
Classe 1991, nata a Lecco ma residente a Zurigo, Lorenza Longhi sta costruendo un percorso di ricerca dal tratto originale, mettendo a punto un linguaggio che fonde pittura, grafica, installazione, e collezionando una serie di significative presenze in spazi espositivi italiani ed europei. Artista della scuderia di Fanta-MLN, galleria milanese attenta alle nuove generazioni, Longhi ha preso parte alla Quadriennale del 2020/21. Ed è lei la vincitrice della seconda edizione del Premio Covivio, dedicato dal grande gruppo immobiliare ad artisti emergenti di qualità, selezionati tra le gallerie presenti a miart. La realizzazione di un’opera site specific, per uno degli edifici Covivio, è la sfida con cui l’artista selezionato si misura ogni anno. Longhi ha così progettato il suo primo murale, pensato come intervento permanente in uno spazio privato ma con funzione pubblica: siamo sulla terrazza di Wellio Duomo, building destinato a uffici, inaugurato nel 2022 e ispirato a un modello di proworking su cui il gruppo sta puntando molto.
L’opera è stata presentata il 5 luglio, con un evento dedicato: un talk, curato per Covivio da Artribune Produzioni, ha visto la partecipazione, insieme all’artista, di Francesco Barbieri (Head of Transactions and Special Projects Italy Covivio), Andrea Staid (antropologo e docente NABA) e Jacopo Veneziani (storico dell’arte e divulgatore). Abbiamo approfondito con Lorenza Longhi i temi e le ispirazioni alla base della sua pratica artistica, della sua ricerca teorica e del lavoro progettato per Wellio.
INTERVISTA A LORENZA LONGHI
Cuore del tuo lavoro è il riutilizzo, la rigenerazione e la manipolazione di elementi preesistenti, che giungono sia dalla cultura pop, che da quella cosiddetta “alta”. Pubblicità, comunicazione, architettura, arte, interior design. Si tratta, anche, di processare e reinventare figure e segni dei sistemi sociali, economici e di potere, intesi come sistemi in cui il linguaggio produce significati collettivi, gerarchie, immaginari, simbologie dominanti?
Quello che mi interessa è una continua sottolineatura o attenzione per i formalismi e le strutture delle cose, le scelte cosmetiche e gli stili. Mi interrogo sulla potenziale impermanenza delle diverse scelte estetiche sociali (ma anche sul modo in cui esse si sedimentano e suscitano in noi desideri immediati). Mi piace molto una cosa che ha detto Pati Hill, parlando di una delle sue opere: “Voglio che questa immagine sia “showy”. Mi riferisco ai materiali di uso comune con cui lavoro, che tutti conosciamo e riconosciamo come tali, nella loro specificità: pagine di riviste, mobili, etc. Ma voglio anche che siano “showy”, adatti a essere “mostrati”. Mi interessa capire cosa rende queste cose (spesso oggetti, parole, forme di linguaggio o tecnologie) desiderabili e anche efficaci. E poi io cerco solo di evidenziarne i meccanismi, con le mie versioni rielaborate delle cose stesse che prendo in considerazione.
Molto forte è nella tua ricerca il riferimento al passato, nonostante non si rilevino mai concessioni all’emotività. C’entra mai la nostalgia? O hai un approccio esclusivamente critico-analitico?
Il mio rapporto con oggetti del passato ha molto poco a che fare con la nostalgia o con il mio attaccamento a essi, non mi affeziono alle referenze che decido di utilizzare. Il processo di scelta ricade su determinati elementi perché credo che, con il dovuto tempo di ristagno, li si possa osservare con quel distacco, quell’oggettività, utili ad analizzare l’impatto che culturalmente e storicamente hanno avuto. Allo stesso tempo scelgo elementi che non siano troppo lontani, con i quali quindi si ha ancora una certa risonanza tiepida.
Mi sono interessata soprattutto a elementi appartenenti agli Anni ‘50 e poi ‘80, quando cioè le economie hanno subito un forte cambio, con un riflesso sul rapporto delle persone con le cose, i beni consumo e il lifestyle. Trovo interessanti quei momenti in cui l’idea di abbondanza era sfacciata e cerco di capire come è stata pubblicizzata e acquisita dall’immaginario collettivo, osservare cosa ha prodotto.
Veniamo alle mostre. I display diventano per te, spesso, parte delle opere stesse, anche sulla base di ragionamenti e di citazioni storiche, architettoniche, etc. Ad esempio, per l’installazione Minuet of Manners, a Zurigo, hai usato un sistema di sospensioni, per i lavori a parete, ispirato agli allestimenti del Musèe d’Orsay progettato nel 1986 da Gae Aulenti…
Fin da subito lavorare con il display è stato naturale. Mi interessa organizzare gli spazi in modo che ogni elemento contribuisca a una percezione complessiva. Quando penso a una mostra, penso a come rendere goffo uno spazio, spesso partendo dall’osservazione di spazi espositivi che trovo in qualche modo “esagerati”, come il Museo d’Orsay. Oltre alle sale espositive mi interessano i contorni, come le aree di accoglienza, le hall, le aree ristoro, che provo a enfatizzare indagando il modo in cui contribuiscono a creare l’esperienza della visita.
Ne deriva quella che potremmo definire “l’espansione della sindrome della hall” o la “sensazione della hall”, con la sua spazialità inquietante. Il mio interesse consiste nel sottolineare questi spazi di transizione all’interno di un museo o di uno luogo espositivo, in modo che siano sempre presenti. In qualche modo, questi “spazi grigi” diventano elementi senza i quali un museo non esisterebbe più.
Ci fai qualche esempio?
Ho fatto qualcosa di simile in una mostra alla Villa Vassilieff (Creative Beginnings Professional Ends, 2020), dove ho posizionato un’opera dietro un bancone che lo sponsor aveva collocato nell’area espositiva. Ironicamente ho scelto il punto in cui andava esposto un dipinto del dopoguerra a scopo rappresentativo! L’azione stessa finisce per diventare un’opera, all’interno di un apparato più ampio, in un sistema di oggetti con le loro funzioni.
E ancora, i visitatori riconoscono di trovarsi in un luogo non reale, in una mise en scene? Ho riflettuto su questo mentre lavoravo a Untitled (2019), presentato per la prima volta nella mostra intitolata Visual Hell, New Location (Fanta-MLN, 2019) e successivamente nel contesto della Quadriennale Fuori! 17 (2020). Quest’opera faceva riferimento ai soffitti e alle pareti in vetro che spesso caratterizzano i musei e le grandi aziende, aprendosi all’ambiente circostante e presentando idee specifiche di trasparenza. Qui ho sostituito il vetro e il metallo con materiali da falegnameria. Inoltre, ho notevolmente ridotto l’altezza dello spazio. Insieme alla precarietà della struttura, improvvisamente questa configurazione modificata rivelava una condizione convenzionalmente radicata, rendendo tangibili le influenze del concetto di “glass ceiling”.
LORENZA LONGHI E LA SERIGRAFIA
Utilizzi molto la serigrafia. Una tecnica di stampa tradizionale che scivola verso un lavoro di tipo concettuale, recuperando l’analogico e facendone qualcosa di diverso. Raccontami di questa tua passione e di quale valore abbia all’interno del tuo percorso di formalizzazione artistica.
Utilizzo ed esploro la serigrafia dal 2016. Il primo lavoro è nato dall’acquisto di una stoffa che già presentava uno strato di colore argento su nero. Poiché il tessuto era elasticizzato, il colore si crepava, creando delle linee suggestive. Proprio queste crepe, dovute probabilmente a un difetto di produzione, mi hanno suggerito di utilizzare il colore e le tecniche in modo sbagliato, così che trattenessero al loro interno i passaggi e le tracce produttive, come una sedimentazione dei segni.
Quindi, ho iniziato a chiedermi a quale tecnica potesse ricreare questa stessa sedimentazione e ho pensato alla serigrafia, che non avevo mai utilizzato prima. Di solito è un processo organizzato e preciso, programmato per l’efficienza. Io, invece, ho cercato un modo per sottrarmi a questa precisione. Mi interessava molto, allo stesso tempo, la pittura. E mi chiedevo sempre se le pennellate dovessero essere visibili o meno, fino a che punto la materialità della pittura dovesse rivelare la mano dell’autore e la sua presenza fisica.
Che tipo di tecnica personale hai sviluppato?
Dal 2016 ho provato e riprovato varie tecniche di “hackeraggio” della stampa serigrafica e principalmente stampo utilizzando un telaio vuoto, senza immagini impresse. Recentemente ho iniziato a utilizzare solo la mesh (la tela serigrafica, N.d.R), che di solito è attaccata a un telaio di metallo che la tiene tesa: resta così libera, appoggiata sul supporto da stampare, e poi ci stendo l’inchiostro. Il risultato è ancora più imprevedibile e materico, perché sia la mesh che il supporto da stampare, non essendo né fissati né tesi, creano pieghe, si muovono durante la stampa e generano effetti pittorici interessanti.
Di base quello che viene stampato è un monocromo, ma sulla superficie applico degli stencil con frasi o soggetti che voglio far apparire. Il monocromo argento, nero o bianco, diventa così la costante a cui si applicano delle variabili. La superficie serigrafica è estremamente vulnerabile e delicata, potrebbe essere ulteriormente modificata. Non sono mai lavori “protetti”, sembra che si aprano alla possibilità di variare.
Il linguaggio verbale è stato più volte protagonista delle tue opere: che valore ha la scrittura, per te, e da dove arrivano frasi, testi, parole?
Il linguaggio ricorre spesso nei miei lavori bidimensionali. In questi lavori serigrafici è vero che non seguo una logica fissa o un protocollo, nella selezione del materiale originale, ma ho una direzione che mi guida nella ricerca. Nelle nuove opere per Platform ho prestato attenzione nella scelta delle frasi tratte da “LIFE Magazine”, nelle edizioni dei primi cinque anni degli Anni ’50. Provengono da articoli e annunci pubblicitari. Ho scelto questo periodo perché ho trovato interessante l’uso del linguaggio che sviluppavano e utilizzavano per abituare le persone alle infinite opzioni di acquisto che il nuovo boom economico permetteva loro. Una situazione completamente nuova. Gli articoli riguardavano nuovi metodi di coltivazione su larga scala, l’inizio dell’esplorazione dello spazio, le tecnologie disponibili per l’espansione delle imprese e per le abitazioni. Ho deciso di concentrarmi su questa tipologia di elementi linguistici, che, anche se decontestualizzati, portano nella loro struttura una sorta di era della prosperità e dell’abbondanza, ormai decaduta.
LORENZA LONGHI PER COVIVIO
Proprio sulla parola si basa Days, l’opera che hai progettato per Wellio, spazio di Covivio in zona Duomo, a Milano. Qui la scrittura si fa presenza concettuale su muro, lontana da logiche decorative, quasi iscrivendo la parola in un rettangolo di invisibilità. Il documento pubblicitario si trasforma in intervento spaziale, direttamente sull’architettura, e la serigrafia viene evocata attraverso la pittura. Come hai lavorato, tecnicamente, a questo progetto?
Si tratta di un vero e proprio wall painting, il primo che realizzo. Ma anche il mio primo intervento site specific permanente. È stata un’occasione per sviluppare ulteriormente la mia serie di dipinti serigrafici: monocromi argentati con cui mi interessa riflettere sulle superfici e i protocolli dello spazio urbano. Un modo per interrogarci su come attraversiamo i luoghi e su cosa lasciano dietro di noi i segni che incrociamo, su cui ci soffermiamo o che spesso registriamo inconsapevolmente (come quelli pubblicitari). Per la parte strettamente esecutiva ho scelto di collaborare con dei pittori murali professionisti, nel tentativo di raggiungere, grazie alla loro esperienza, i risultati pittorici che cerco. Quasi a voler sviluppare insieme un dizionario pittorico specifico. Mi interessa sempre affidarmi alle expertise altrui, quando non sono io direttamente a realizzare il lavoro, e vedere che cosa succede.
Il murale, realizzato con vernice argentata, luccica alla luce del sole. La facciata viene così reinventata, rivestita e risignificata da questa nuova superficie scintillante, capace di sedurre, di attrarre gli sguardi delle persone, spingendole a intercettare le frasi impresse sul muro e ad attivare delle riflessioni.
Quanto alle ispirazioni tematiche, invece, quale dialettica esprime la frase che riporti nell’opera? Che origine ha e che riflessioni induce?
“Incredibly global – Incredibly private”: è uno slogan tratto da una pubblicità degli Anni ’90, una campagna promozionale per un istituto di private banking. A suo modo elaborava, attraverso delle immagini a confronto, i concetti di “globale” e “privato”, in termini consumistici o comunque funzionali al racconto del marchio.
Ho scelto l’annuncio principalmente perché percepisco – o mi auguro – che ciò che oggi viviamo come globale e come privato è così diverso, rispetto ad allora, ed è in continua rielaborazione. Temi che orientano la nostra idea del mondo e che assumono vari significati possibili, nel tempo e in relazione ai contesti.
Nell’opera Days il testo è isolato dal suo contesto originale e rielaborato, così da per aprirlo a nuovi significati, suggerendo una riflessione sulla natura stessa dell’edificio in cui sarà installato e su come i confini del nostro spazio privato (in questo caso uno spazio di lavoro e di incontro) si trasformano, si ampliano. Cosa intendiamo oggi per globale e privato, e come possono evolversi nel tempo questi concetti? È una domanda aperta, a cui ho pensato potesse essere interessante essere esposti.
Ci parli della tua ultima mostra e dei progetti in cui sei adesso impegnata per l’immediato futuro?
La mia ultima mostra si chiama Sentimental Pop ed ha aperto a metà giugno da Weiss Falk a Basel. Per la prima volta ho trattato i miei pezzi come veri e propri “paintings”, indagando quindi l’aspetto più pittorico della mia pratica – sia materialmente, sia a livello delle reference che da anni si riflettono nelle mie opere – e riducendo al minimo le manipolazioni spaziali. È stato sorprendente e divertente. Nella mia penutlima personale, The Olds, da Fanta-MLN, inaugurata a novembre 2022, avevo invece indagato l’opposto, concentrandomi nello specifico sulla coesistenza fra opere e display nello spazio.
Per il futuro credo continuerò a indagare questi due aspetti della mia pratica, cercando di trovare un equilibrio fra di essi. Un obiettivo che cercherò di ottenere per un progetto istituzionale a cui tengo molto e che vedrà la luce a fine gennaio 2024. Stay tuned.
Helga Marsala
https://www.lorenzalonghi.biz/
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