Peng Shuai Paolo, il giovane artista cinese che vive in Italia e ci spiega l’economadismo
Riflette sul tema delle migrazioni la ricerca del giovane artista nato in Cina e arrivato in Italia da bambino, in equilibrio tra due mondi. E per farlo chiama in causa la natura e le piante selvatiche
Viviamo in un mondo instabile, aperto a incroci anche pericolosi: che questo sia un bene, un male, un’opportunità, dipende dallo sguardo che vogliamo tenere aperto mentre attraversiamo l’incrocio che ci è dato. L’arte d’origine o influenza cinese, dopo un lungo periodo forzato di quarantena culturale e un successivo processo di accumulazione primaria gestito sui mercati occidentali, mostra una vitalità ancora pienamente da capire in una prospettiva globale, a partire dai suoi temi primi.
Identità, migrazioni e altrove nell’arte
Prendiamo le migrazioni, tanto potentemente ricorrenti tra gli artisti cinesi contemporanei: proprio in ragione di questa ripetizione di fondo appare interessante rinvenire una capacità creativa fresca, spontanea, vitale come una pianta ben coltivata che vorrebbe farsi selvatica – e della natura d’origine sta ben attenta a non dimenticarsi. Ormai assuefatti ai travolgenti flussi umani di Ai Weiwei, agli effetti a scomparsa di Liu Bolin o alla colta ma statica pittura corale di Liu Xiaodong, inciampiamo quasi per caso in un giovane artista che parla di sé a partire dalla propria personale esperienza, e allarga lo sguardo a quello che avviene nell’Italia contemporanea anche attraverso una minuta, tenace migrazione cinese, così inaugurando un incontro nel presente aperto a un futuro, appunto, possibilmente opportuno.
Intervista a Peng Shuai Paolo
Abbiamo incontrato l’artista, Peng Shuai Paolo (Xiangtan, Cina, nel 1995, vive a Milano), a margine dell’inaugurazione della sua prima mostra a Roma presso un piccolo spazio espositivo di ricerca, la Galleria Atelier nel Rione Monti, per la cura attenta di una sinologa italiana, Valentina Pedone, e un critico d’arte statunitense, Arendt Speser. Qui, una serie di intense opere di vario genere e mezzi, costruite intorno al libro di famiglia che nella tradizione amministrativa cinese definisce poeticamente la genealogia di un individuo, sviluppano una riflessione intima e credibile del percorso che porta a far parte di un mondo, anche nuovo, senza dimenticare da dove si provenga, provando a dirigersi altrove.
Come situi il tuo percorso nel contesto dell’arte contemporanea?
La mia è una ricerca fortemente interdisciplinare, concentrata sui campi antropologico ed ecologico: in questo sono stato molto influenzato da letture come quelle di Gilles Clement e della lezione del professor Riccardo Venturi, è grazie a lui che ho iniziato a riflettere sull’Antropocene e le finalità di un’opera d’arte, una questione congiunta che ho poi sviluppato anche nella mia tesi di laurea all’Accademia di Brera dedicata all’economadismo e alla mobilità inter-relazionale tra le specie (tutto questo mentre grazie alla mia compagna sono entrato in stretto contatto con ambienti naturali locali, nell’Oltrepò lombardo, per me del tutto sconosciuti: un altro paesaggio italiano).
E che direzioni prende il tema dell’economadismo?
Il tema dell’economadismo si lega a quello della migrazione e dell’unione di diverse culture, tocca l’ecologia e la politica delle piante in relazione al post-identitario e più ampiamente al post-umano. Perché la migrazione, dal punto di vista planetario, non è un fenomeno prettamente umano: tutti gli esseri viventi volontariamente o involontariamente fanno parte di questo movimento, collaborando e intrecciandosi l’uno con l’altro. Io cerco di considerare tutto questo anche attraverso lo sguardo artistico.
Natura e cultura nell’opera di Peng Shuai Paolo
Nella tua arte, che passa per opere materiali o performance, è costante l’attenzione a una dimensione identitaria, insieme a un’idea di natura trascendente: puoi spiegare questi elementi?
Il tema dell’identità è molto frequente nei miei lavori, questo ha a che fare col “disagio” del mio passato e della mia esperienza personale. Sono nato e cresciuto per i miei primi nove anni in Cina, poi mi sono trasferito in Italia con la mia famiglia, ho studiato qui fino alla laurea, per mia scelta non ho ancora la cittadinanza italiana: c’è stata una lunga fase in cui volevo trovare una posizione identitaria, così mi sono avvicinato alla teoria di un’identità fluida, una sorta di continuo divenire in cui l’unica certezza è l’imminente incertezza. L’idea dell’incertezza la si può ricollegare alla spontaneità, ed è per questo che mi riferisco alla natura. M’interessa molto la crescita spontanea delle radici e delle piante, soprattutto le piante che vengono comunemente considerate inferiori: le erbacce e le piante selvatiche, perché loro in qualche modo sono riuscite a resistere e a sopravvivere in differenti condizioni ambientali.
Si può rintracciare tutto questo nella mostra che ti ha visto protagonista alla Galleria Atelier?
In Geneulogia, oltre a portare la serie di opere dedicate alla mia famiglia e alla morte di mio nonno, ho esposto anche opere organiche, come Untitled e Magic Beans. Tutte e due prendono ispirazione dalla soia selvatica, da come questa pianta fu addomesticata dai cinesi cinquemila anni fa e poi portata in vari continenti, portando con sé anche valori culturali. Ci sono anche due installazioni, húlu, a partire da due zucche cinesi che ho trovato abbandonate in un campo agrario cinese, a Novellara. Le ho raccolte, le ho lasciate essiccare, rielaborate, ho provato a dare loro un nuovo significato che tenesse insieme questo aspetto di cultura e natura che procedono insieme.
La scelta dei materiali per realizzare le tue opere è molto legata a un’idea organica di natura e storia: puoi dirci qualcosa in proposito?
La scelta dei materiali che uso per la mia produzione avviene in maniera istintiva, a volte sono materiali di riciclo oppure materiali organici che raccolgo durante i miei viaggi, nei campi e nei boschi: li porto nel mio studio, li osservo, li studio, immagino, poi li trasformo in un oggetto personale. Vorrei evitare l’abitudine consumistica dell’utilizzo di materiale cosiddetto “usa e getta” e adottare il pensiero cinese Wu Jin Qi Yong (物尽其用), traducibile come “fare migliore uso di tutto”, dal riutilizzo di un chiodo già usato per appendere un quadro in mostra fino a usare oggetti trovati per comporre l’opera, o addirittura lasciare che questi diventino l’opera stessa. Oggi anche l’arte ha bisogno di riflettere sulla sostenibilità ecologica. D’altra parte, la natura in sé è un artista, in quest’ottica l’artista per me non è altro che un ricreatore consapevole.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
È difficile dire, per me i progetti possono nascere come le piante spontanee, basta avere un filo di luce e germoglieranno. Posso dire che ora ho molti materiali in studio e ultimamente mi sto concentrando sulla produzione video, si tratta di una serie di “azioni” umane riprese nei paesaggi italiani. Uno di questi video-installazione verrà esposto all’inizio di settembre nel festival Con-vivere a Carrara, a Palazzo Binelli. E poi vedremo cosa crescerà.
Luca Arnaudo
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